L’approvazione della legge di bilancio 2021 da parte della Camera dei deputati, e la probabile conferma definitiva da parte del Senato prevista per i primi giorni della prossima settimana, consentono di fare una prima valutazione della parte riservata agli interventi previsti a sostegno del lavoro e dell’occupazione.



Per la gran parte, questi confermano l’impostazione originale proposta dal Governo, basata sulla sostanziale continuità dei provvedimenti già adottati nel corso del 2020 per tamponare le conseguenze dell’emergenza sanitaria sull’occupazione, assicurando la continuità delle casse integrazioni in concomitanza del blocco dei licenziamenti previsto fino al 31 marzo del 2021; un potenziamento degli incentivi per le nuove assunzioni per i giovani under 36 anni e le donne, la proroga delle misure di accompagnamento alla pensione anticipata per l’Ape social e l’Opzione donna e il potenziamento dei contratti di espansione per le medie e grandi imprese. Le ultime misure, unitamente al proseguo della quota 100, per attenuare con il pensionamento anticipato i rischi per la perdita del lavoro per qualche centinaia di migliaia di lavoratori.



Prosegue la navigazione a vista, che richiederà un’ulteriore iniezione di risorse pubbliche nel corso del prossimo anno, efficace nel breve periodo per contenere l’impatto delle riduzioni delle attività produttive, ma del tutto sovrastrutturale per la finalità di rimettere in moto il mercato del lavoro. In presenza di una recessione economica che, nelle stesse previsioni del Governo, comporterà tre anni di crescita economica solo per recuperare le perdite del Pil del 2020, e in coincidenza del blocco dei licenziamenti, gli incentivi per le nuove assunzioni sono un’arma spuntata. Nel contempo i propositi di riformare le politiche del lavoro, a partire da quelle attive, vengono traguardati nel tempo, con degli accantonamenti finanziari simbolici destinati allo scopo, e in attesa di attivare le nuove risorse europee del Recovery fund.



Nel super emendamento che ha accompagnato il voto di fiducia alla Camera per la proroga dell’Ape social, il sostegno al reddito destinato ai lavoratori disoccupati negli anni prossimi alla pensione, l’Opzione donna che prevede un pensionamento anticipato prima dei 60 anni con la rendita calcolata con il sistema contributivo, sono stati impegnati circa 2,7 miliardi di euro. In questi viene ricompresa la quota degli oneri a carico dello Stato per finanziare i cosiddetti contratti di espansione occupazionali sottoscritti dalle parti sociali nelle aziende superiori ai 250 dipendenti. Questi ultimi non si comprende il perché vengano definiti in questo modo, dato che prevedono il vincolo per le aziende di assumere un nuovo lavoratore assunzione a fronte di una corrispondente uscita anticipata di tre lavoratori anziani che potrebbero andare in pensione nei prossimi 5 anni, con un saldo occupazionale finale decisamente negativo.

Nell’elenco dei buoni propositi, volti a tacitare le accuse relative all’assenza di un disegno riformatore, non poteva mancare l’impegno a potenziare le politiche attive, con la destinazione di 500 milioni per ripristinare l’assegno di ricollocazione a favore dei disoccupati da oltre 4 mesi, privati due anni orsono delle risorse a suo tempo previste per dirottarle esclusivamente a favore dei beneficiari del reddito di cittadinanza, e di un ulteriore fondo GOL (Garanzia Occupabilità dei Lavoratori) destinato a finanziare un nuovo programma per il reinserimento dei disoccupati. Provvedimenti improvvisati e inevitabilmente demandati all’emanazione dei decreti attuativi del ministro del Lavoro.

L’unica vera novità, che abbiamo commentato in un recente articolo, è rappresentata dall’introduzione in via sperimentale per tre anni, di un ammortizzatore sociale finalizzato a compensare una parte delle perdite di fatturato per i lavoratori autonomi e i professionisti, limitatamente a quelli, meno del 10% del totale, iscritti alla Gestione separata presso l’Inps. Per la finalità di erogare fino a 6 mensilità, per un importo tra i 250 e gli 800 euro, a fronte di una perdita di almeno il 50% del fatturato rispetto all’anno precedente.

Nel complesso gli interventi, in perfetta continuità con il passato, tendono a generare supplementi di tutela per i lavoratori delle aree di attività, quelle dell’industria e delle medio grandi aziende dei servizi, che già usufruiscono di un’abbondante mole di risorse e di strumenti disponibili. Ma sono del tutto spuntate per buona parte dei lavoratori dei servizi, dei comparti caratterizzati da un’elevata stagionalità e mobilità lavorativa, la cui prospettiva è essenzialmente condizionata dalla quantità e dalla qualità delle nuove assunzioni. Questi ultimi sono essenzialmente concentrati nei settori che stanno registrando, per la quasi totalità, le perdite degli occupati.

L’assenza di un’impostazione che guardi al futuro è particolarmente grave. Soprattutto se teniamo conto che almeno 2,5 milioni di occupati, che sono parte del differenziale negativo che ci separa dalla media del tasso di occupazione degli altri paesi dell’Ue-15, sono relazionati ai comparti della sanità, dell’assistenza e dei servizi alle persone e all’istruzione. E che questo potenziale di crescita dipende anche dalla qualità delle politiche del welfare, che in Italia sono dominate dalla spesa previdenziale e assistenziale. Uno squilibrio destinato a peggiorare ulteriormente per le scelte intraprese negli anni recenti, e con effetti esponenziali, nel corso della gestione della crisi attuale.

L’importanza delle politiche attive del lavoro, di sostegno alle famiglie per la natalità, la cura delle persone e l’istruzione, anche per la finalità di offrire un serio contributo alla ripresa del mercato del lavoro, è ben nota agli esperti del tema. Probabilmente anche ai soggetti di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori, ma non riscontra una particolare sensibilità dei loro associati, più interessati a tutelare le condizioni vigenti che li riguardano in presa diretta. Così la tanta evocata esigenza di rafforzare le politiche attive del lavoro, e di rafforzare le competenze dei lavoratori con l’ausilio di sistemi formativi e di orientamento per rendere sostenibili le transizioni lavorative, anziché mobilitare le risorse e gli strumenti disponibili, si traduce nell’ennesima promozione di alcuni progetti delimitati e di scarso significato.

Più volte abbiamo sottolineato che questa deriva è il prodotto dell’idea malsana di ritenere che le criticità siano legate a una carenza di risorse pubbliche risorse e non all’uso inefficiente di quelle disponibili. La spesa pubblica per la sanità nel corso degli anni 2000 è aumentata dell’84%, il 34% in più rispetto all’inflazione cumulata. Eppure nella vulgata corrente si dà per scontato che sia vero il contrario pur di evitare una seria riflessione sulla qualità delle gestioni. Senza rimediare le inefficienze l’aumento della spesa pubblica, necessario per far fronte alle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, rischia di diventare un barile senza fondo.

La capacità di integrare i percorsi formativi con quelli lavorativi, e di ridurre i differenziali tra le caratteristiche della domanda delle imprese e quelle dell’offerta di lavoro, è ridotta al lumicino perché molti degli attori, a partire dalle scuole secondarie, dalle Università, e di una parte significativa delle imprese, non ritengono che questo sia un loro problema. Eppure alcuni esponenti del nostro Governo continuano a ritenere che questa criticità la debbano risolvere degli improvvisati operatori dei servizi pubblici per l’impiego. La necessità di rimediare al fallimentare esperimento delle politiche attive del lavoro per i beneficiari del reddito di cittadinanza, con l’assunzione di 2.800 navigator e di 11.000 nuovi operatori nei servizi pubblici non viene nemmeno presa in considerazione.

Solo alcuni esempi, fra i tanti che potrebbero essere evidenziati per ogni settore di attività. La tendenza a esternalizzare i problemi procede in parallelo con l’indisponibilità a modificare i comportamenti, soprattutto da parte degli apparati e delle rappresentanze che non debbono fare i conti senza avere il vincolo di essere competitivi e di pagare dazio in assenza di risultati.

Ma in assenza di un cambiamento dell’approccio culturale, e di un salto di qualità nella gestione delle risorse disponibili, le risorse del Recovery fund rischiano di diventare il veicolo per incrementare ulteriormente il nostro debito.