Dopo gli ultimi dati sulla stagnazione dell’economia, il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini ha chiesto a gran voce una Legge di bilancio coraggiosa. Non gli si può dare torto, anche e soprattutto dopo la pubblicazione di altre statistiche e notizie. Occorre, però, capire cosa si deve intendere per coraggiosa. Appena usciti i dati Istat sull’andamento macroeconomico, con l’aria che aveva Woody Allen (un grande intellettuale oltre che un grande attore) in Manhattan, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria ha affermato che nel secondo semestre appena iniziato ci sarebbe stato un balzo e, a fine anno, la crescita per il 2019 sarebbe stata dello 0,2% del Pil.



Purtroppo negli ultimi giorni sono arrivate notizie raggelanti quali la caduta della produzione manifatturiera in Germania e Francia, l’acuirsi dello scontro sui dazi tra Usa e Cina (alcuni preferiscono parlare di «dispute» come nel lessico dell’Organizzazione mondiale del commercio, ma nessuno dei contendenti pare voler adire agli organi Omc per mediazione o giurisdizione) e l’aprirsi di una doppia guerriglia valutaria tra dollaro ed euro, da un canto, e tra yuan e dollaro, dall’altro. L’andamento dell’industria in Francia e Germania ha un effetto diretto sulla nostra economia. Le dispute commerciali e valutarie rallentano l’economia internazionale e per un Paese esportatore come l’Italia, la cui produzione, consumi e investimenti sono molto elastici all’export, hanno implicazione indirette ma negative.



Un sollievo di breve periodo, per molti aspetti più apparente che reale, potrebbe venire dalle misure americane per indurre un deprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro. Le stime della Federal Reserve, stime che spiegano il recente ribasso dei tassi d’interesse direttori, affermano che ci vorrebbe un’iniezione tra i 200 e i 400 miliardi di dollari da collocare in titoli di Stato europei. Al tempo stesso, le autorità monetarie (e politiche) americane non intendono rimetterci la camicia investendo in bonds che rendono quasi nulla. Il solo mercato sufficientemente grande e in cui, a ragione dello spread, si prospettano rendimenti interessanti è quello italiano. Un’operazione del genere avrebbe il risultato di ridurre, nell’arco di poche settimane, lo spread con benefici sia sulla finanza pubblica, sia sulla crescita reale. L’altro lato della medaglia è che un deprezzamento del dollaro rispetto all’euro avrebbe effetti sul nostro export verso gli Usa (circa 43 mila miliardi di euro nel 2018, di cui quasi 13 mila miliardi nel settore di trasporti). Quindi, non vale affatto la pena contare sugli amici americani e sul loro desiderio di deprezzare il dollaro rispetto all’euro come grimaldello per la crescita italiana.



Siamo, comunque, alle soglie di un rallentamento dell’economia internazionale. Le simulazioni econometriche suggeriscono che già l’anno prossimo l’economia degli Stati Uniti potrebbe dare segni di recessione. Difficile pensare che l’area dell’euro, con un tasso di crescita dell’1,2% quest’anno e uno probabilmente inferiore il prossimo, possa fare da traino all’economia mondiale. Occorre, quindi, contare sulle politiche di bilancio. Esaminando le statistiche del Fondo monetario internazionale sembrano esserci soltanto due grandi Paesi in grado di attuare politiche di bilancio espansive senza rischi per l’aumento del debito sovrano (Germania e Stati Uniti). C’è un lungo elenco di Paesi piccoli che possono allentare la corda della finanza pubblica: Australia, Danimarca, Estonia, Ungheria, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Olanda, Romania, Svizzera. Anche ove si potesse attuare una manovra sincronizzata di questi Paesi, lo stimolo complessivo non sarebbe tale da incidere sull’economia mondiale.

Le prospettive per l’Italia, quindi, sono di una nuova recessione mentre non si sono ancora rimarginate le ferite delle due subite negli ultimi dieci anni. Il Governo avrà difficoltà a imputarla alle politiche economiche degli Esecutivi che lo hanno preceduto. Dato che la Banca centrale europea utilizza dal 2012 (l’anno del Whatever it takes di Mario Draghi) tutta la batteria di strumenti di politica monetaria di cui si dispone e non si può contare (per evitare di cadere in recessione) sulle politiche di bilancio altrui, occorre una coraggiosa manovra keynesiana, ripudiando, se si vuole, la “resa incondizionata” firmata dal presidente del Consiglio Conte e dal ministro dell’Economia e delle Finanze Tria per evitare la procedura d’infrazione da parte dell’Ue (come abbiamo sottolineato su questa testata all’inizio di luglio). Se la Legge di bilancio non sarà all’altezza, prima delle autorità dell’Ue, ce lo diranno le maggiori agenzie di rating che si pronunciano proprio a metà ottobre e i cui giudizi potrebbero incidere pesantemente su finanza pubblica ed economia reale.

Cosa intendere per coraggiosa manovra keynesiana? Non certo una riduzione delle imposte in deficit. Non solo – come dimostra il recente Meridiano di Mondadori John M.Keynes Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta e altri scritti. Progetto editoriale, Saggio introduttivo e Cronologia di Giorgio La Malfa, Notizie sui testi e note di commento di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese. Traduzioni di Giorgio La Malfa. Mondadori, Milano 2019 – Keynes non ha mai suggerito politiche della spesa pubblica in disavanzo, ma politiche di bilancio in cui le spese e le entrate di parte corrente siano in pareggio e si finanzino in deficit investimenti pubblici ad alta redditività sociale in grado di attivare, nella fase di cantiere, fattori di produzione parzialmente utilizzati e di aumentare, a regime, la produttività. Ma la riduzione tributaria in disavanzo effettuata dalla prima Amministrazione Reagan (su suggerimento dell’allor giovane David Stockman) ha avuto effetti sulla crescita dopo quattro anni e ha comportato nel frattempo un deprezzamento del dollaro (in un’unione monetaria avrebbe causato una svalutazione interna, ossia una compressione dei salari). Negli Usa non si avvertono ancora implicazione delle riduzioni fiscali di Trump e anzi l’economia è in pieno rallentamento. Lo stesso Arthur Laffer ha dimostrato che la sua curva, quando funziona, richiede un lungo lasso di tempo.

Una coraggiosa manovra keynesiana vuol dire pareggio della spesa corrente, eliminando sussidi e rendite (ivi compresa quella detta di cittadinanza) e spingendo sugli investimenti.