Portare l’Italia nella terza repubblica con la riforma costituzionale dell’elezione diretta del premier. L’annuncio di Giorgia Meloni è stato tanto roboante da risultare persino sospetto. Dopo un anno di lavoro la bozza di revisione messa a punto dal ministro Casellati è finalmente pronta per il primo esame in Consiglio dei ministri, annunciato per venerdì 3 novembre, con un’intesa di principio già raggiunta fra i partners di maggioranza.
Tanta prosopopea sembra alzata ad arte per far finire in secondo piano le vere spine del governo, quelle della manovra di bilancio, che ha finalmente un testo definitivo, firmato ieri a tarda sera da Mattarella per l’invio alle Camere.
Ma andiamo con ordine. L’accordo sul testo di revisione della Costituzione non è stato facile, ed è molto differente dalle intese programmatiche pre-elettorali: non elezione diretta del Capo dello Stato, ma quella del premier, una via italiana alla stabilità di governo che non ha paragoni al mondo. E la materia della legge elettorale dalle bozze sembra demandata al dibattito parlamentare, anche se con i paletti di una unica scheda e di un premio di maggioranza per portare la coalizione del premier vincente al 55% dei seggi.
Le opposizioni, da Calenda al Pd, dai 5 Stelle alla sinistra di Fratoianni e Bonelli, già annunciano battaglia senza quartiere perché vedono menomate le prerogative del Quirinale. Ma il sondaggio pubblicato proprio ieri su Repubblica certifica che la voglia di stabilità attraverso l’elezione diretta di almeno uno dei due vertici istituzionali (Quirinale o Palazzo Chigi) è nettamente maggioritaria nel complesso dell’elettorato (57%), e molto alta (almeno il 45%) fra chi vota Pd o 5 Stelle.
Il referendum confermativo non spaventa quindi Giorgia Meloni, che lo ritiene una battaglia che si può vincere, anche se sarà impegnativa. Il tutto a patto che la maggioranza rimanga compatta: la Lega oggi applaude, ma non si può sapere come potrebbe reagire all’impantanamento dell’autonomia differenziata, che alle Camere arranca, pur essendo in teoria molto più vicina a concretizzarsi. Alla riforma costituzionale servono infatti quattro letture, e sarà un miracolo se le prime due dovessero verificarsi prima delle elezioni europee di giugno 2024.
Di un pericolo Meloni non dovrà guardarsi: nessun ostacolo le verrà dal Quirinale. Quando parla il Parlamento, il Capo dello Stato non può che prenderne atto, sbaglia chi a sinistra immagina che Mattarella possa non autorizzare la presentazione alle Camere del disegno di legge di revisione costituzionale.
Certo è che la discussione parlamentare entrerà nel vivo solo a gennaio, dopo la sessione di bilancio. E qui sono dolori per la premier. L’imposizione di zero emendamenti alla maggioranza funziona come il coperchio della pentola a pressione: rischia di scoppiare da un momento all’altro. E questo non solo per la compressione delle prerogative parlamentari (su questo sì che Mattarella qualcosa di critico potrebbe dire), ma soprattutto per le distanze fra il testo che finalmente ha visto la luce e il programma con cui un anno fa il centrodestra ha vinto le elezioni.
Si tratta di una manovra caratterizzata da estrema prudenza, sulla quale oltre a Meloni ha avuto voce in capitolo solo Giancarlo Giorgetti. Una manovra “draghiana”, se vogliamo, che è rimasta dentro i paletti imposti dall’Unione Europea. Ci sono elementi quasi di sinistra, di redistribuzione sociale per decreto, c’è grande attenzione a non scontentare Bruxelles, da una parte, e le agenzie di rating dall’altra.
La scommessa è passare indenne queste forche caudine, sperando in tempi migliori, in un’economia che senza guerre riprenda fiato. In fondo è proprio la variabile europea quella a pesare di più: dopo la sostanziale sconfitta dei popolari in Spagna e del PIS in Polonia (primi partiti, ma relegati all’opposizione) l’idea di Meloni di essere determinante per una maggioranza “conservatrice” alternativa a Strasburgo, senza socialisti, è definitivamente archiviata. La via obbligata della presidente del Consiglio e del suo partito per contare è prepararsi a dare disco verde al bis di Ursula Von der Leyen alla guida della Commissione. Ma sarebbe tutto inutile senza i conti in regola. Rispetto allo scenario internazionale, quella europea è la dimensione su cui Meloni corre più rischi. Rischi strettamente legati con la politica interna.
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