MONACO DI BAVIERA – Domani 27 agosto ci sarà, al Quirinale, una nuova veloce tornata di consultazioni e in tempi brevissimi il Capo dello Stato affiderà un incarico o per un Governo per i restanti tre anni e mezzo della legislatura o per assicurare il disbrigo degli affari correnti mentre si terranno le elezioni e si procederà alla costituzione di un nuovo Parlamento. Il momento è senza dubbio drammatico sotto il profilo e politico ed economico. Lo si avverte meglio con il cannocchiale, da Monaco di Baviera, passando alcune ore con gli esperti del CESifo (uno dei maggiori centri di ricerca economica a livello mondiale) che con il microscopio (dove si discetta il destino di politici e di poltrone).



Con il cannocchiale si vede che il nodo cruciale non sono né i dieci punti programmatici del Movimento 5 Stelle, né i tre punti imprescindibili posti dal Segretario del Partito democratico, ma come: a) assorbire i costi causati da una politica economica e finanziaria tutt’altro che ottimale degli ultimi 14 mesi; b) plasmare una Legge di bilancio che porti a una riduzione del debito pubblico, risponda con efficacia a una recessione i cui segni sono sempre più evidenti e avvii l’Italia su un percorso di sviluppo moderno ed equo.



Il primo punto si riassume in pochi numeri. La crescita economica dell’Italia per l’anno in corso, ipotizzata inizialmente dal Governo all’1,5% (poi rimodulata all’1%), sarà secondo i più accreditati istituti di ricerca internazionali (20 e tutti privati) a mala pena zero con il risultato che il debito pubblico si situerebbe sul 133 % del Pil (innervosendo gli investitori e causando un aumento dello spread). Il gettito da privatizzazioni stimato a 18 miliardi nel Nadef (Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) dell’anno scorso raggiungerà al meglio 70 milioni; si aggiungono nuove nazionalizzazioni (Alitalia, forse Ilvs) destinate a pesare sulle casse dello Stato. La spesa per investimenti pubblici è stata insignificante, mentre quella di parte corrente è stata dilatata da interventi assistenziali che, secondo i primi indizi, stanno avendo effetti dannosi sull’offerta di lavoro (aumento di quella in nero, diminuzione di quella disponibile per impieghi stagionali). Il flusso d’investimenti privati si è ridotto in quanto sono cresciuti i rischi e le incertezze di operare nel nostro Paese. Un quadro, nel complesso, desolante, costellato, per di più, da liti continue all’interno dell’Esecutivo.



Quando si forma un Governo non si può prendere l’eredità di quello precedente con il beneficio d’inventario e accertarla se, quando si fanno i conti, le somme sono positive. Essenziale, quindi, una revisione di percorso, restringendo la spesa di parte corrente, aumentando gli investimenti (sia pubblici che privati) e iniettando vitamine nell’economia. Sulla nuova spesa assistenziale (ossia sul reddito o rendita di cittadinanza) emerge una proposta concreta: farne fare un’attenta valutazione da parte terza (Ocse, Ilo) prima di decidere se proseguire l’esperimento.

Il “Governo di svolta”, se succederà al “Governo del cambiamento”, dovrebbe partire da queste considerazioni per mettere a punto un programma di politica economia a medio e lungo termine. Prima di chiedersi (domanda peraltro legittima) se potrà concepire e attuare la svolta un collegio composto in gran misura dalle stesse persone che hanno avuto risultati non certo positivi nel “governare il cambiamento”, occorre domandarsi quali dovrebbero essere le misure concrete nella prossima Legge di bilancio. La manovra necessaria – lo riconoscono anche coloro che facevano parte del “Governo del cambiamento” – dovrebbe aggirarsi sui 45 miliardi, di cui oltre la metà per disinnescare le clausole di salvaguardia con relativi aumenti dell’Iva. Lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha scritto, a chiare lettere, che su questo fronte è arduo pensare a ulteriore flessibilità da parte dell’Unione europea.

Una delle forze politiche che, dopo avere fatto parte del “Governo del cambiamento” farebbe parte del “Governo della svolta”, ribadisce la netta opposizione alla revisione (all’insù) dell’Iva. Su questa testata, ho già sostenuto che se la scelta è tra aumento dell’Iva ed aumento dello spread è più efficiente e più equo rivedere le aliquota Iva. Tanto più che la ricerca econometrica conferma che il moltiplicatore dell’Iva è basso e, quindi, gli effetti sui consumi e sulla domanda aggregata saranno inferiori a quanto si teme. Inoltre, lo spostamento dell’imposizione dalle persone alle cose (accompagnata da una severa lotta all’evasione anche tramite la fatturazione elettronica) renderebbe il sistema tributario più moderno e meno scalfibile dalla “fiera delle tasse” (per mutuare un’ottima espressione di Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti) prodotta inevitabilmente dal processo d’integrazione economica internazionale.

Tuttavia, la rimodulazione (e aumento) dell’Iva non è sufficiente. Da un lato, occorre utilizzare la scure nei confronti della spesa improduttiva di parte corrente. Da un altro, occorre dare un segnale forte di riduzione dell’imposizione tributaria diretta, iniziando da quella che grava sul costo del lavoro. Se non lo si vorrà e potrà fare, il “Governo della svolta” farà verosimilmente presto la fine del “Governo del cambiamento”.