Aumentare il congedo obbligatorio di paternità da 10 a 22 giorni, estendere il diritto a restare a casa con il proprio figlio appena nato anche per i padri lavoratori autonomi percependo il sostegno economico equivalente, aumentare la retribuzione dei congedi parentali dal 30% all’80% dello stipendio (se non al 100%): sono alcune delle proposte lanciate in questi giorni dagli enti che hanno promosso “4e-Parent” (sul sito ulteriori informazioni). In particolare la priorità, nell’immediato, è di introdurre già nella finanziaria di quest’anno, per il 2025, alcune di queste misure – almeno l’ampliamento della platea ai padri liberi professionisti (e costerebbe circa 40 milioni: davvero poco!) e/o l’ampliamento della retribuzione per un mese all’80% anche per i padri: costo stimato di questo intervento 170 milioni (un’altra cifra non impossibile).
Al di là del successo di queste specifiche richieste rispetto alla Legge di bilancio 2025, oggi in avanzata discussione, vale la pena di ricordare qui alcuni elementi generali, che confermano la centralità di una maggiore attenzione pubblica al tema del ruolo paterno nella cura dei figli, sicuramente nei primi 1.000 giorni di vita (in sostanza la fascia 0-3 anni), e soprattutto in occasione dell’evento nascita.
Un primo elemento deriva dai dati di moltissime ricerche a livello internazionale, tra cui alcune importanti indagini longitudinali su campioni consistenti di bambini, seguiti nel tempo dalla nascita fino all’adolescenza. Emerge con chiarezza che quando i padri possono essere presenti con continuità nella cura dei figli – fin dalla nascita – si riscontra un effetto positivo non solo sul benessere del bambino e sul suo successivo sviluppo educativo e psico-relazionale, ma anche sul benessere delle madri e sulla qualità della relazione di coppia. Ovviamente (ma non troppo…), anche il benessere dei padri risulta rafforzato, confermando che “curare aiuta anche chi cura, non solo chi è curato”.
Un secondo dato riguarda il differenziale di agevolazioni e sostegni tra madri e padri, che nel nostro Paese risulta essere tra i più alti in Europa, mentre in alcuni Paesi esiste (o viene perseguita con maggiore coerenza) una sostanziale parità di trattamento per i congedi per entrambi i genitori. A dire il vero questo dato è un po’ ingeneroso verso l’Italia, perché la distanza tra i sostegni alle madri e quelli dei padri è certamente legata al fatto che il sistema di protezione della maternità in Italia è uno dei più generosi e forti in Europa (uno dei pochi ambiti di politica sociale dove siamo nei primi posti!), mentre il sostegno al ruolo paterno è davvero solo agli inizi. Quindi, in generale, sostenere con maggiore decisione (e con maggiori risorse) le politiche pubbliche di sostegno alla paternità è certamente una scelta virtuosa, nel nostro Paese.
Un terzo elemento meritevole di attenzione, più specifico per il nostro Paese, riguarda invece la tuttora scarsa utilizzazione, da parte dei padri lavoratori dipendenti, dei congedi di paternità – che, ricordiamolo, sono recentemente passati da soli tre giorni a dieci giorni, in ottemperanza alle indicazioni dell’Unione europea. Dai dati Inps degli ultimi anni risulta che solo due padri su tre hanno utilizzato il diritto a questi giorni di congedo (che è formalmente intoccabile), mentre oltre un terzo non li ha utilizzati per niente. Due ulteriori dati, a questo riguardo: in primo luogo un terzo di chi non li ha utilizzati dichiara che “non ne era a conoscenza”, il che appare oggettivamente sconcertante: da un lato emerge una mancata comunicazione pubblica di questa opportunità – e qui qualche campagna di sensibilizzazione sui media e presso gli uffici del personale sarebbe certamente opportuna; dall’altro il dato potrebbe tradire un certo “disinteresse”, di una parte non marginale di lavoratori padri, rispetto a questa opportunità. L’altro dato interessante (e preoccupante) riguarda il fatto che tra gli utilizzatori i dati non consentono di capire quanti giorni sono stati effettivamente utilizzati, dato che il padre può – giustamente – scegliere se utilizzarne uno, due, quattro o tutti e dieci. Qui un altro ragionamento cruciale: si ritrova una percentuale simile di padri che non utilizzano questi dieci giorni di congedo di paternità anche nelle aziende più virtuose in tema di welfare aziendale, quelle che favoriscono e promuovono al proprio interno misure di work-life balance e la stessa presenza dei padri a casa. Quindi, se per molti padri il congedo non viene utilizzato per paura di conseguenze negative di carriera o di pregiudizi nei loro confronti, non basta essere in un contesto family-friendly: serve comunque sceglierlo personalmente, di restare a casa.
Per concludere, un maggiore sostegno per il coinvolgimento dei padri nella cura dei propri figli, partendo proprio dai primissimi giorni, è sicuramente una priorità cruciale, all’interno della mappa delle politiche per la famiglia, che sfida però molte logiche strutturate – forse meglio dire “cristallizzate” e rigide – del mondo del lavoro. L’idea di fondo è che la costruzione di una forte rete di cura attorno ai nuovi nati meriti un investimento forte da parte della collettività, e che anche i padri hanno un compito insostituibile in tale responsabilità. E siccome i nuovi nati sono il tesoro più prezioso di una nazione, sarebbe tempo che le loro madri e i loro padri non siano penalizzati, ma siano sostenuti dall’intera collettività (sistema pubblico, imprese, organizzazioni dei lavoratori, comunità locali, reti informali), a sostegno di quel bene comune che sono le nuove generazioni. Anche così si può sperare di sostenere il rilancio della natalità, che appare finalmente come una priorità di sviluppo generale – anche economico – del Paese, e non come un’emergenza assistenziale.
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