Ci siamo, la manovra finanziaria sta prendendo forma anche perché dovrà averla per forza entro il prossimo 31 dicembre. A tempo scaduto sono state pubblicate l’istanza e le “istruzioni” da utilizzare per richiedere il contributo a fondo perduto perequativo (quello che nei fatti doveva essere “innovativo” perché utile a coprire i costi fissi delle aziende). Il modulo predisposto è un mezzo rompicapo non tanto per le difficoltà di compilazione, che comunque ci sono, ma perché quando ti cimenti a compilarlo ti chiedi, inevitabilmente, a cosa sono servite le comunicazioni che di volta in volta sono state prodotte. In particolare, ci riferiamo a quelle sugli aiuti di Stato “percepiti” che vanno inseriti nei bilanci, nelle dichiarazioni, nelle comunicazioni che i consulenti del lavoro fanno mensilmente in relazione ai rapporti di lavoro dipendente, ecc. La sensazione che si prova è di essere di fronte a un bivio. L’Amministrazione o non è in grado di rielaborare le informazioni che le vengono trasmesse o mette continuamente alla prova il contribuente e i suoi consulenti. Viene richiesto loro, infatti, di confermare quanto già in possesso dell’Amministrazione (solo) con l’obiettivo di rintracciare omissioni da sanzionare senza badare alla loro sostanza.



Nelle intenzioni dell’Amministrazione le (non) nuove comunicazioni dovranno assicurare la verifica del rispetto dei limiti di utilizzo degli aiuti di Stato nell’intento di contrastare i maggiori utilizzi. In questo ambito dovrà essere altresì prodotta un’apposita autodichiarazione per indicare gli aiuti utilizzati ed eventualmente il rispetto delle condizioni della sezione 3.12 del Temporary Framework. Non “sorprende” che il provvedimento che introduce questa autodichiarazione non sia ancora stato emanato. Forse la spiegazione di queste comunicazioni è più semplice. Le diverse banche dati alimentate dalle comunicazioni dei contribuenti non si parlano e, dunque, non si completano.



Andando avanti ci si imbatte in un ulteriore emendamento con il quale è stato disposto che l’estratto di ruolo non è un atto impugnabile. Viene fissato, infatti, che il ruolo e la cartella di pagamento, anche qualora non validamente notificata, possa essere impugnata nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio in relazione alla partecipazione a una procedura di appalto, oppure in relazione alla riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici o, infine, perché possa determinare la perdita di un beneficio nei rapporti con la Pubblica amministrazione.



La motivazione dell’emendamento troverebbe fondamento in un dossier prodotto dall’Agenzia delle Entrate, finito per diventare parte integrante dei lavori della Commissione interministeriale di riforma della giustizia tributaria. Stando al dossier, l’istituto dell’impugnazione dell’estratto di ruolo sarebbe utilizzato dai contribuenti anche al solo scopo di sfruttare i diffusi problemi (che dunque sono reali e non pretestuosi) legati alle notifiche delle cartelle. In sostanza, anche quando la notifica degli atti è sbagliata la pretesa rimane valida facendo prevalere l’assunto che gli atti emanati dall’Agenzia delle Entrate sono corretti a prescindere.

Un simile atteggiamento è irrispettoso del cittadino/contribuente e sconfessa lo stesso legislatore. La riforma della Giustizia tributaria del 1992 diede al giudizio tributario la connotazione di processo tributario, in luogo di quella storica di contenzioso tributario, provvedendo a inserire nel procedimento forti richiami all’istituto della procedura civile. In questo ambito diventano pertanto determinanti gli aspetti procedurali di formazione degli atti che l’Agenzia delle Entrate ha proposto di cassare se eventuali errori provengono dalla stessa. Il rimedio escogitato è stato annullare il diritto di difesa discriminando quei cittadini che sono pregiudicati dall’iscrizione a ruolo per uno dei tantissimi motivi non previsti dall’emendamento.

È stato altresì rivoluzionato il patent box che al momento non ha ancora un contorno normativo la cui definizione è rinviata alla Legge di bilancio. Sul tema è in atto uno scontro tra i tecnici del Mise e quelli del Mef che al momento ha lasciato i contribuenti senza un riferimento. In linea con l’intervento sul patent box sono le “Modifiche alla disciplina della rivalutazione dei beni e del riallineamento dei valori fiscali”. Anche questo intervento prevede di agire retroattivamente “contro” le imprese che hanno rivalutato le attività immateriali come marchi e avviamento. Sul punto si interviene con troppa superficialità. La proposta correttiva diluisce in 50 anni la deduzione dei maggiori valori (ma già si parla di portarla a 30 anni) iscritti per effetto della rivalutazione. Dunque di fatto si pone rimedio alla superficialità degli interventi di Governo, Parlamento e Uffici tecnici “attaccando” le aziende che si sono fidate.

Al momento, dunque, la manovra pare abbia quale denominatore comune una scarsa attenzione per le imprese per le quali sembra non valgano le tutele previste dallo Statuto del Contribuente. 

Complessa, infine, appare la definizione della nuova Irpef che in queste ore ha rappresentato per qualcuno il momento per introdurre un contributo di solidarietà a carico delle fasce alte di reddito finalizzato ad attenuare il caro bollette che non riguardava quelle delle imprese.

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