Il Governo delle tasse guidato dal partito delle tasse: a piazza San Giovanni ieri la Lega di Matteo Salvini ha lanciato lo slogan che sarà il tormentone politico dei prossimi mesi. È vero che la Legge di bilancio farà aumentare le imposte? Se si fa un puro conto del dare e dell’avere, delle entrate e delle uscite, sembra di no. Perché da un lato aumentano di 8 miliardi di euro le entrate fiscali (più 3 miliardi che però verranno pagati a primavera essendo rinviato l’anticipo delle imposte dirette dovuto a novembre). Dall’altro ci sono 23 miliardi di euro che equivalgono al mancato aumento dell’Iva. Il saldo finale, dunque, sull’insieme dell’imposizione diretta e indiretta, dovrebbe essere a favore dei contribuenti. Tuttavia questo conto della lavandaia non convince perché prevale la giungla.
La manovra fiscale per il 2020 forse non farà aumentare la quota del reddito nazionale che va allo Stato, ma certamente infittisce il bosco e il sottobosco che rende impenetrabile un sistema fiscale rimasto immutato nella sua struttura portante da quasi mezzo secolo, ma che si è infittito di provvedimenti piccoli e grandi, spiccioli o strutturali che lo hanno reso incomprensibile e impenetrabile. Il Governo giallo-rosso, anziché cominciare un lavoro di lunga lena che avrebbe dovuto ridurre e semplificare le imposte, ha fatto il contrario. Almeno per ora, almeno così sembra, perché per capire che cosa sarà davvero realizzato e cosa no bisognerà attendere una stagione che si preannuncia già come un inverno dello scontento.
La Legge di bilancio, del resto, è stata approvata “salvo intese” e sono bastate poche ore per capire che queste intese non ci sono o comunque non reggono. Il dilemma allora da economico si fa politico. C’è Luigi Di Maio che, preoccupato dal mal di pancia dei bottegai, vuole mettere in galera i grandi evasori, ma evitare il pos a commercianti e artigiani. La sua preoccupazione è arrivata a tal punto da chiedere un vertice di maggioranza dopo il Consiglio dei ministri del quale lui stesso fa parte come titolare degli Esteri. C’è poi Matteo Renzi che, incoronato in tv da Bruno Vespa (la quarta camera) come l’unico e vero capo dell’opposizione e antagonista di Salvini, ha preparato la Leopolda intimando a gran voce che venga abolita quota 100 per le pensioni, cioè la misura che più sta a cuore a Salvini. Ha ricevuto un secco no dal M5s, però ha ottenuto il risultato di far fibrillare anche da questo versante i grillini e Giuseppe Conte, il quale ha replicato che quota 100 è “un pilastro” di questo Governo.
Il presidente del Consiglio avrebbe dovuto dire “un altro” pilastro, perché aveva definito allo stesso modo anche alla lotta all’evasione che poi con appena 3,2 miliardi previsti al posto dei 7,5 annunciati si è dimostrata un piloncino. Lo stesso potrebbe dirsi del taglio al cuneo fiscale che doveva essere anch’esso un pilastro per il Pd di Nicola Zingaretti e che, invece, con 3 miliardi scarsi è ben poca cosa. La verità è che questa manovra economica si regge con gli zeppi, non con le colonne di cemento armato.
Il pulviscolo di provvedimenti provoca di per sé confusione, indebolendo l’intera Legge di bilancio e aumentando l’incertezza sui risultati. Il che fa alzare le antenne anche al Fondo monetario internazionale, tornato a chiedere più coraggio nel ridurre un debito che continua a salire e ha raggiunto il 135% del prodotto lordo. Il più incerto è senza dubbio il risultato della lotta all’evasione che poggia fondamentalmente sui pagamenti elettronici e il tetto al contante il cui effetto è dubbio e tutto da verificare, così come gli esiti della stretta sulle compensazioni e sulle frodi in particolare dei carburanti. Quanto alle manette agli evasori, può suonare giacobino, ma la realtà è che tra ricorsi, patteggiamenti, inefficienza burocratica, lo Stato riesce a recuperare in media appena l’11% del dovuto. La Guardia di finanza l’anno scorso ha individuato 13.957 evasori, ne ha arrestati 400, nessuno è stato messo in prigione. Negli anni precedenti è stato ancora peggio: 11.303 denunce nel 2016 con 99 arresti, 12.375 nel 2017 con 226 arresti.
Aleatorio è anche il gettito che può venire cancellando le agevolazioni fiscali sui redditi oltre i 120mila euro, anche perché se si prende come punto di riferimento contabile la dichiarazione dei redditi Irpef, siamo a circa l’1% dei contribuenti. Ben 1,8 miliardi dovrebbero arrivare dalle tasse ambientali (plastica, camion e automezzi inquinanti, vecchie auto aziendali), mentre la sugar tax su merendine e bibite sembra destinata solo ad alimentare rumorose liti nei talk show televisivi forse ancor più della revisione dell’Iva forfettaria fino a 65mila euro di reddito che suscita un’ondata di rigetto senza in compenso generare grandi benefici. Un dubbio lo merita anche il giro di vite sulla deducibilità di svalutazione e avviamento a carico delle banche, che dovrebbe fruttare 1,6 miliardi di euro.
E gli investimenti? Conte parla di 70 miliardi di euro disponibili (i soliti 70 miliardi evocati già un anno fa), in realtà sono 16, ma pronti a partire sarebbero solo quelli bloccati da Danilo Toninelli, grosso modo la metà. Meglio di niente, eppure anche questi restano rumori fuori scena. Plastica, pos, merendine, contanti, di tutto e di più, l’unica cosa che non interessa i media, l’opinione pubblica, gli elettori, i partiti politici e, a quanto pare, nemmeno il Governo, è quella che invece potrebbe davvero far partire l’Italia, un Paese rassegnato a galleggiare su acque stagnanti. Crescita zero. O forse decrescita. Ma nessuno può dire che sia felice.