Per Giuseppe Conte è prematuro parlare della Legge di bilancio, che ancora va scritta. È certo però che conterrà un taglio del cuneo fiscale, misura che piace sia a Pd che a M5s, oltre che alle parti sociali, e che potrebbe valere cinque miliardi di euro. Ed entro venerdì dovrà essere approvata la Nota di aggiornamento del Def, in cui si capirà quanto deficit intende fare l’esecutivo. In questi giorni si parla dell’ipotesi di un compromesso con l’Ue per arrivare al 2,1-2,2% del Pil. Abbiamo fatto il punto della situazione con Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.



Professore, oltre che per disinnescare le clausole di salvaguardia, il grosso delle risorse nella manovra sarà usato per il taglio del cuneo fiscale. Cosa pensa di questa misura?

Una parte del cuneo fiscale è rappresentata dagli oneri sociali, che una volta venivano chiamati salario differito, visto che servono a pagare le pensioni. Dunque bisogna avere la consapevolezza che inevitabilmente quello che non verrà più pagato da imprese e lavoratori dovrà essere finanziato dallo Stato. Questo vuol dire che crescerà il disavanzo pubblico. Certo, non di una cifra molto alta, ma in un momento in cui si discute anche dei decimali di sicuro conta. Il punto è poi capire che cosa ci si attende dalla riduzione del cuneo fiscale.



Si parla di una misura in grado di abbassare il costo del lavoro e di mettere più soldi in busta paga ai lavoratori…

Guardi, nel 2016 le entrate totali per la protezione sociale in Italia sono arrivate a 511 miliardi di euro, di cui 247 di contributi pubblici. Quindi, quasi la metà della protezione sociale è finanziata con soldi pubblici. Guardando alla Germania, sempre con riferimento al 2016, si scende al 35,2%. I lavoratori tedeschi pagano il 30,6% delle entrate per la protezione sociale, in Italia il 14,8%. Dal mio punto di vista va benissimo mettere più soldi in busta paga ai lavoratori, ma forse sarebbe il caso di pensare a una struttura produttiva in grado di pagare salari più alti piuttosto che aumentare la spesa a carico dello Stato. La questione vera è capire perché si agisce continuamente (visto che non si tratterebbe del primo intervento) sul cuneo fiscale.



Secondo lei perché?

Io credo lo si faccia perché, a parità di struttura produttiva e sbocchi sui mercati, si ritiene che questa misura migliori la competitività delle imprese. Ma essa non dipende solo dal costo del lavoro. Una via che ha funzionato fino a un certo punto è industria 4.0. Tutto questo però rimanda al vil denaro una questione che è invece molto più profonda: la qualità e la posizione di mercato dei prodotti che le nostre imprese esportano. In questa situazione a me pare che il taglio del cuneo fiscale sia più una misura salva-bilanci delle imprese che non di aumento della competitività.

Perché parla di misura salva-bilanci delle imprese?

Perché il quadro economico, soprattutto al nord, è negativo, essendo noi dentro la catena globale di valore della Germania, in particolare nel settore automobilistico. Il nostro Paese risente in modo molto forte del rallentamento tedesco. Il Qe della Bce da solo non basta. La crescita delle imprese italiane all’estero fatica e questo problema di riposizionamento non ha a che fare con il costo orario del lavoro. Quindi, il taglio del cuneo fiscale serve ad aiutare la tenuta dei bilanci delle imprese, non essendoci la possibilità di agire sui tassi di cambio. Il problema di fondo viene però eluso.

A che cosa si riferisce?

Al fatto che ci vuole una vera politica industriale. Bisogna investire nell’innovazione, in quello che oggi conta sui mercati, e farlo in modo intelligente. Prendiamo il mercato dell’auto: chi risente meno della crisi è chi produce le ibride, che sono però prevalentemente asiatiche. Quindi siamo in forte ritardo e nasce tutto dalla scarsa valorizzazione del patrimonio di intelligenza che in questo Paese esiste. Il legame imprese-conoscenza-università-innovazione è debole. Stiamo subendo le tendenze di mercato, più che anticiparle.

Torniamo alla manovra. Venerdì sapremo, attraverso la Nadef, quali sono i saldi di bilancio che l’Italia intende proporre all’Ue. Si parla di un deficit al 2,1-2,2% del Pil. Cosa ne pensa?

Secondo il modello econometrico di Bruxelles, il nostro Paese sta viaggiando al massimo delle sue capacità, perché il famoso output gap è positivo. Se il Paese rallenterà, com’è probabile, è chiaro che la base imponibile diminuirà e dunque il deficit aumenterà. Quindi, il discorso andrebbe rovesciato, perché se non ci sarà crescita del Pil quel 2,2% salirà automaticamente. E aumenterà la percentuale di entrate totali sul Pil per mantenere la protezione sociale. A quel punto l’importante sarà non cedere alla tentazione di effettuare dei tagli (discorso diverso dal rendere efficiente la spesa), per non tornare ai tempi di Monti, quelli di un biennio di terribile recessione. Speriamo che almeno la Germania decida di spendere per se stessa.

Proprio settimana scorsa Berlino ha varato un piano da 100 miliardi di euro, da qui al 2030, per la protezione del clima…

Questo piano ha un valore sociale enorme, ma anche un valore straordinario di competitività: è un aiuto vero all’industria tedesca dell’auto che boccheggia. Pensando quindi ai suoi interessi, la Germania può farci tirare il fiato, vista la stretta connessione con il sistema industriale del nord Italia. Un piano del genere dovremmo averlo noi, più ancora della Germania, anche se ovviamente di dimensioni diverse, visti i nostri vincoli di bilancio, perché favorisce l’innovazione.

(Lorenzo Torrisi)