Il mondo delle imprese è fortemente irritato. È vero, l’aumento dell’Iva è stato scongiurato. Ma a quale prezzo? Presi singolarmente i nuovi ministri appaiono ragionevoli e comprensivi. Ma tutti insieme, nella formazione di governo, si fanno sopraffare dall’istinto del branco. E partoriscono provvedimenti che contraddicono i propositi di buon senso con cui si sono presentati all’opinione pubblica.
Dall’impianto generale del comportamento dell’esecutivo sembrerebbe che in Italia si possa fare a meno dell’industria e dell’impresa più in generale per creare ricchezza. E che le risorse per tirare avanti e cercare magari di migliorare la nostra posizione, individuale e collettiva, pendano davvero dagli alberi o si trovino sottoterra. Basta saper cercare nel posto giusto.
Misure odiose come la ventilata tassa sulle merendine e quelle che hanno poi trovato effettiva applicazione nel punire lo zucchero nelle bevande e l’uso della plastica segnano la distanza che esiste tra il dire e il fare. Tra il riconoscere a parole l’assoluta necessità di avere un’industria forte e competitiva e il penalizzare poi intere filiere mettendo fuori gioco investimenti e occupazione.
Anche il cinismo con il quale si sta affrontando il caso dell’Ilva di Taranto è indicativo della scarsa considerazione che si riserva agli investitori esteri – che sono invece d’importanza vitale per il nostro Paese – e della sottovalutazione degli effetti che l’attuale gestione della vertenza potrà scaricare sull’intera società: locale e nazionale. Sconcerta la mancanza di alternative.
Togliere l’immunità penale agli attuali amministratori dopo avergliela garantita fornirà inoltre ad ArcelorMittal un alibi di ferro per recedere dall’impegno, assunto a suo tempo, di risanare il sito e rilanciarlo. Mostrarsi inaffidabili – incapaci di mantenere la parola data di fronte alla comunità internazionale – non farà certo bene alla nostra reputazione e alla nostra capacità di attrarre capitali.
E che dire della norma che inasprisce le pene per chi sarà ritenuto, alla presenza del semplice fumus, un evasore fiscale da comparare quanto a pericolosità a un boss mafioso? Come rimediare alle conseguenze del pubblico disdoro, del sequestro preventivo dei beni e della conseguente distruzione dell’attività economica quando poi – e l’esperienza dovrebbe insegnare – l’accusa si dovesse sgonfiare?
Tutto questo dire una cosa e farne un’altra, questo carico di balzelli a casaccio, questo occhieggiare alle presunzioni di colpevolezza non fa certo bene a un rapporto disteso tra chi amministra e chi è amministrato. E approfondisce il solco, che andrebbe invece colmato, tra Governo e parti sociali pur in un apparente clima di dialogo: che in queste circostanze diventa tra sordi. La fiducia cade a zero.
L’errore più grave che qualunque compagine di governo può compiere è scambiare la responsabilità dei suoi interlocutori per acquiescenza o, peggio, debolezza. Ci vuol poco ad alzare i toni, a fare la voce grossa, a insultare la controparte. A giocare al tanto peggio tanto meglio contribuendo a sfasciare un Paese che tanto saldo non è. Ogni limite ha una pazienza, ammoniva il principe de Curtis.