Dopo un anno si ripresenta, a parti invertite, la questione sugli abusi procedurali commessi nel corso dell’approvazione della legge di Bilancio. Alla fine della sessione del 2018, erano stati i parlamentari del Pd a intraprendere una strada mai sperimentata in passato, il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale.
E la Corte, con un’ordinanza redatta dall’attuale presidente, aveva risposto in modo originale: i singoli parlamentari – e non i gruppi o le minoranze parlamentari – sono legittimati a ricorrere alla Corte costituzionale in caso di “violazioni manifeste” delle prerogative del Parlamento. Più esattamente, quando “le lesioni lamentate dai ricorrenti raggiungano quella soglia di evidenza che giustifica l’intervento della Corte per arginare l’abuso da parte delle maggioranze a tutela delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare”.
Dunque, esiste lo strumento per censurare gli abusi particolarmente gravi che nel corso del procedimento legislativo sono imputabili alla maggioranza, tanto più quando si tratta di legge di Bilancio. Ma, concludeva la Corte, nel caso del 2018 la stretta imposta dall’allora maggioranza ai lavori parlamentari non appariva particolarmente grave alla luce di tre fattori: “la pressione” dovuta al lungo e controverso confronto con le istituzioni europee; l’applicazione di nuove norme introdotte nel regolamento del Senato; e il fatto che, nelle fasi precedenti alla presentazione del maxi-emendamento finale, non fosse stata del tutto preclusa una “effettiva discussione” in Parlamento.
Stavolta, però, il ricorso prospettato dai parlamentari della Lega ha qualche cartuccia in più.
Prima di tutto, rimosso ormai il dubbio sulla legittimazione dei parlamentari a presentare il ricorso alla Corte, tutta l’attenzione si concentrerà sul merito del ricorso e sulla gravità degli abusi commessi dall’attuale maggioranza nell’approvazione della legge di Bilancio.
Inoltre, in questa occasione i due presidenti delle Assemblee si sono già spinti a esprimere ufficialmente le loro critiche rispetto alla procedura imposta dalla maggioranza. Insomma, sono gli stessi “primi” rappresentanti delle istituzioni parlamentari ad affermare la presenza di vizi così gravi da doverne rendere pubblica l’esistenza, addirittura prima dell’approvazione finale della legge di Bilancio.
Poi, non sono adesso replicabili le tre considerazioni che la Corte aveva posto a parziale giustificazione degli abusi commessi nel 2018: le istituzioni europee non hanno fatto alcuna pressione sul Ddl di bilancio presentato dal Governo; le norme del Senato non sono più considerabili come “nuove”; e la discussione della Camera sulla legge di Bilancio sarà del tutto impedita, in quanto, come già anticipato, ci sarà soltanto la discussione sulla questione di fiducia.
Infine, la Corte non potrà dimenticare il chiaro avvertimento con cui concludeva l’ordinanza: “in altre situazioni una simile compressione della funzione costituzionale dei parlamentari potrebbe portare a esiti differenti”.
Qualcuno dirà che la Corte non potrebbe spingersi sino ad annullare la legge di Bilancio. Anche questo aspetto, però, può essere affrontato. L’annullamento della legge, infatti, è un esito che non deve essere necessariamente richiesto nel ricorso. E in più la Corte dispone di non pochi precedenti in cui, per ragioni di stabilità e continuità ordinamentale, ha sospeso temporaneamente l’efficacia delle sue pronunce.
In ogni caso, la sola pendenza del ricorso costituirà un ulteriore elemento di incertezza nel prossimo gennaio, quando il destino del Governo sarà deciso dall’incrocio di altre e rilevanti scadenze. Aver commesso l’errore imputato lo scorso anno agli avversari politici, è segno di un’amnesia che indebolisce il quadro di riferimento. Ed è noto che la Costituzione, soprattutto nei giudizi della Corte, è non solo “testo”, ma anche “contesto”. Anche i politici dovrebbero impararlo.