Nella politica degli scampoli, degli annunci e della propaganda, i giallo-rossi non sembrano diversi dai giallo-verdi: piovono parole per anticipare una pioggerella di misure di dubbia, se non scarsa efficacia. Anche il modo di comunicare è dei peggiori. Non vogliamo ricorrere al solito esempio della valigetta rossa britannica dove la Legge di bilancio resta sigillata fino al momento di presentarla in Parlamento, perché come sappiamo anche il sistema politico del Regno Unito è in piena crisi di nervi e non solo. Ma da noi non si fa che gettare incertezza, preoccupazione, allarme persino.



Sono tutti già sul piede di guerra i commercianti per l’obbligo del pos e gli incentivi all’uso delle carte di credito senza sapere se ci sarà o come sarà. La lotta all’evasione, perno della politica fiscale, appare un mero escamotage, ma già sembra che i risparmiatori siano pronti a portare i loro quattrini alle isole Cayman. È così che si è governato a lungo e per questo siamo a questo punto.



Prendiamo proprio le tasse e l’obbligo di pagarle. Quanti strumenti sono stati inventati? Dagli anni ’80 in poi sono arrivate le manette agli evasori (1982), poi il cosiddetto redditometro (1983), i coefficienti presuntivi (1989), la minimum tax (1993) e i parametri (1995), fino ad arrivare agli studi di settore (1998). Negli anni più recenti è entrata in campo Equitalia, poi l’Agenzia delle entrate. E il recupero delle somme evase e accertate è appena dell’11%.

Che dire sulla guerra ai contanti, un’altra delle tante parole d’ordine farfallone care al Movimento 5 Stelle? C’è lo sconto fiscale per chi usa le carte di credito e di debito, stile Portogallo (dove il beneficio è del 15%)? Non sappiamo, intanto spunta anche la lotteria rafforzando così la convinzione che tutto viene lasciato al caso, o allo stellone italico se volete.



Sull’Iva non si capisce se verrà scongiurato l’aumento trovando chissà come 23 miliardi di euro oppure si farà un accorpamento delle aliquote. Il capo del governo Giuseppe Conte è orientato per questa soluzione, senza aumentare in media l’imposta, ma anche senza ridurla perché allora si apre un buco nelle entrate dello Stato. E allora a che servirebbe?

Il taglio del cuneo fiscale doveva essere la novità, il segno distintivo del Governo che inclina a sinistra, ed è la richiesta dei sindacati e della Confindustria. Ebbene si parla di 5 miliardi, la metà del bonus di 80 euro varato da Matteo Renzi che non si capisce se resterà o verrà assorbito in qualche modo. Cinque miliardi sono davvero noccioline che non servono granché a ridurre il peso del fisco sul costo del lavoro.

Il clima è la nuova emergenza globale, ma il provvedimento viene svuotato. Gli incentivi alla rottamazione delle auto vecchie e inquinanti sarebbero pari a 1.500 euro; se si pensa che una vettura ibrida ne costa almeno 20.000, sembra una boutade. Quanto a scambiare l’automobile propria per servizi pubblici che non funzionano è una presa in giro. Senza contare che la maggior parte della popolazione italiana vive in cinque grandi aree metropolitane, abita in periferia e lavora per lo più al centro.

C’è poi l’usuale balletto sul deficit: Giovanni Tria aveva previsto il 2% entrando in collisione con Salvini, il suo successore Roberto Gualtieri prevede il 2,1-2,2%, Luigi Di Maio vorrebbe rilanciare al 2,5%. Già visto, già sentito, già scontato un anno fa con l’aumento dello spread.

Paolo Gentiloni, neo commissario agli Affari economici al posto di Pierre Moscovici, assicura che l’Unione europea concederà tutta la flessibilità possibile. Ma a quanto ammonta? A pochi centesimi di punto, cioè a un pugno di miliardi: per sapere quanti dipende dal disavanzo che si fisserà come obiettivo. Meglio di niente, però in ogni caso non c’è di che scialare.

E che fine hanno fatto le privatizzazioni? Dovevano essere 18 miliardi nel 2019 e 25 miliardi nel 2020, c’è scritto nella Legge di bilancio approvata dal Parlamento. Sembra che siano stati incassati 800 milioni. Si parla di ridurre le spese superflue dello stato, quali e di quanto? L’economista ed ex ministro Mario Baldassarri in un articolo sul Sole 24 Ore sostiene che “una mirata spending review toccando acquisti e fondi perduti potrebbe dare 60 miliardi, una revisione delle tax expenditures potrebbe liberare 40 miliardi”. Ma mentre quest’ultima andrebbe compensata da una riduzione delle aliquote, altrimenti si trasformerebbe in un aggravio per i contribuenti, l’altra non avrebbe effetti né recessivi, né redistributivi. Se si volesse fare una manovra coraggiosa e di legislatura si potrebbero destinare queste somme in parte a una riforma dell’Irpef, in parte a ridurre il cuneo fiscale, in parte a investimenti per infrastrutture e per l’ambiente. Tre direttrici di marcia chiare, semplici ed efficaci, senza tanti piccoli e inutili provvedimenti, prendendo un po’ qua un po’ là.

Vedremo oggi le macro cifre della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, in particolare se ci sarà una riduzione della pressione fiscale come Conte ha promesso e del debito pubblico (impegno preso da tutti gli ultimi governi con l’Unione europea, con i mercati, con i risparmiatori). Ma soprattutto dovremo vedere entro il mese prossimo il puzzle che riempirà la cornice. Oggi come oggi, pezzi e pezzetti non combaciano.