L’inserimento nella Legge di bilancio di fine anno di una norma relativa allo statuto di Banca d’Italia è stato sottovalutato, dal momento che l’effetto immediato è di limitate dimensioni: alcuni milioni in più di dividendi per i due soci principali. In effetti, qualche giornale meno critico lo ha – non sappiamo come – potuto presentare come “una boccata d’ossigeno di 500 milioni per le famiglie”.



Se a suo tempo la modifica delle norme sulla proprietà della Banca d’Italia erano state oggetto di un lungo dibattito e di una battaglia parlamentare, animata dal Movimento 5 Stelle, questa volta nessuno ha sollevato obiezioni. D’ora in avanti la quota massima detenibile da ciascun quotista potrà essere del 5% anziché del 3%. Ma oggi solo le due banche maggiori superano questo limite e sono inadempienti rispetto al connesso obbligo di alienazione. Ovviamente sarebbe il caso che i soci o la Consob chiedessero ai loro amministratori perché stiano rinunciando a gran parte del rendimento di un loro investimento pur di mantenere una quota infruttifera. Ma a noi interessa capire l’obiettivo di questa apparentemente marginale modifica dello statuto e perché l’urgenza di questo provvedimento.



Al momento sono ben 174 i soci della Banca, alcuni con quote anche minime: comunque, tranne l’Inps e l’Inail, sono tutti enti finanziari privati – e di questi 120 sono banche e fondazioni bancarie – che dovrebbero interpretare il ruolo di “mercato”, in ossequio alle previsioni della legge del 2014. In effetti sono previste norme per la gestione di queste quote, ma come siano avvenute le trattative, a che prezzo e chi decide di fatto le transazioni non risulta pubblico. Riteniamo che le quote siano negoziate al valore nominale (se venissero cedute dai due soci principali a un valore maggiore, questo sì sarebbe un inspiegabile regalo alle due banche “di sistema”!) in maniera da garantire una “cedola” del 6%, rendimento attualmente inimmaginabile con altri strumenti finanziari.



È la norma statutaria che garantisce quest’ottimo dividendo, e non sarebbe difficile trovare fra gli attuali soci ed eventuali ulteriori soggetti finanziari chi potrebbe acquisire dai due soci principali l’eccedenza, pur rimanendo sotto la soglia attuale di 9.000 quote sul totale di 300.000.

Ma cosa accadrebbe se tutti detenessero meno di 9.000 quote? Per assicurarsi il controllo giuridico di Banca d’Italia spa dovrebbero aggregarsi in qualche modo almeno, diciamo, una quindicina di diversi soggetti, che potrebbero far emergere problemi o disaccordi, più o meno rilevanti. Problema oggi inesistente, in quanto i due soci principali – più Inps e Inail – costituiscono comunque un nocciolo duro di circa il 30%.

È vero che si tratta di un controllo autoreferenziale, ma pur sempre è necessario perché il sistema funzioni e non ci sia un effettivo azionariato diffuso. D’altra parte Banca d’Italia ė un centro di potere troppo rilevante per rischiarne il controllo democratico: la vigilanza bancaria meglio resti affidata ai soggetti vigilati, come sempre è stato, l’oro degli italiani non venga utilizzato nel loro interesse, come si aspetta la Bce sin dai tempi di Draghi Presidente, il patrimonio contabile di circa 26 miliardi non sia affidato imprudentemente allo Stato.

Pertanto, non appena si formalizzeranno le iniziative in corso, capiremo chi formerà il nuovo “nocciolo duro” con non più di altri 3 o 4 quotisti che insieme ai due soci principali, Inps e Inail, siano idonei a garantire, con circa il 40%, la continuazione indisturbata della governance dell’Istituzione.

Candidati a questo ruolo sembrerebbero essere le Casse Previdenziali Professionali di commercialisti, medici, avvocati. In ogni caso la risistemazione di Banca d’Italia sarà un dato di fatto anche per il rieletto presidente della Repubblica.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI