Che cosa racconterà domani il Governo italiano all’Unione europea per spiegare la prossima Legge di bilancio? Che l’intera manovra è basata su due pilastri entrambi fragili: più deficit e più entrate fiscali? Il primo è non solo instabile, ma pericoloso, perché un disavanzo del 2,2% scontando una flessibilità di 14,4 miliardi di euro, tutta da verificare, rischia di riproporre lo psicodramma al quale abbiamo assistito già lo scorso autunno, quando il Governo gialloverde sparò il 2,4% e poi scese al 2,04% con quel centesimo di punto rivelatore della ipocrisia di una manovra mal fatta. Il secondo pilastro è in realtà tutto da costruire. Più della metà, infatti, dipende dal successo della lotta all’evasione che, allo stato attuale, è un impegno scritto sull’acqua. In genere la lotta all’evasione in Italia non ha mai prodotto quel che ha promesso, in ogni caso gli esperti di bilancio pubblico sottolineano che in genere si quantifica alla fine, non può essere una premessa, semmai una conseguenza.
Il pacchetto più consistente, pari a 23 miliardi, serve per scongiurare l’aumento dell’Iva. Anche se il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri continua a insistere con la “rimodulazione delle aliquote”, esiste un impegno politico che impedisce di aumentare nel loro complesso le imposte indirette. Non esiste invece un impegno di governo, chiaro e sottoscritto, a ridurre la pressione fiscale, soltanto generici appelli e un elenco di desiderata. Ciò vuol dire che le risorse vanno trovate in nuove entrate dalle imposte dirette e da balzelli vari. L’elenco è su tutti i giornali, anche se per lo più di tratta di annunci, vedremo solo la prossima settimana, cioè quando il Consiglio dei ministri varerà il decreto fiscale collegato alla Legge di bilancio, quanto è fuffa e quanto è sostanza.
E il cuneo fiscale? La riduzione della differenza tra salario lordo e salario netto vuole essere il tratto distintivo della politica fiscale del Pd, quello che dovrebbe distinguere il Governo giallo-rosso da quello giallo-verde: si deve abbassare il costo del lavoro, a favore dei lavoratori dipendenti e degli imprenditori, invece di introdurre una flat tax o presunta tale a favore delle partite Iva, cioè dei lavoratori autonomi. Le aspettative erano grandi, ma è proprio il caso di dire che la montagna ha partorito un topolino: 2,6 miliardi di euro sono davvero un nonnulla, meno della metà di quel che fece il governo Prodi nel 2007 (furono 7,5 miliardi di euro) giudicato modesto anche allora, e in mezzo c’è stata la grande crisi con due recessioni mentre se ne prepara una terza. Non ci sono i soldi, dirà il ministro Gualtieri. Ed è vero. Ma è anche vero che ha rinunciato a priori a mettere mano alla spesa pubblica corrente. Gli unici tagli riguardano i ministeri e ammontano ad appena un miliardo di euro.
“Non vogliamo macelleria sociale”, dicono sia i grillini sia i piddini. Giusto. Oltretutto mentre la congiuntura s’appiattisce oltre che ingiusto sarebbe controproducente. Ma davvero l’alternativa è tra ridurre i servizi sociali e non fare nulla? Chiunque abbia gettato uno sguardo negli 800 miliardi di euro di spesa pubblica e voglia ragionare senza paraocchi sa che è una falsa alternativa. Non ci sono solo le mitiche spese per beni e servizi (una giungla nella quale si sono perduti fior di tecnici, ultimo dei quali Carlo Cottarelli), c’è una pletora di elargizioni più o meno a pioggia che non ha eguali. È chiaro che toccare anche un euro in questo ventre molle dell’italico assistenzialismo scatena reazioni in chi sente minacciati propri interessi. Tuttavia, la rinuncia a riqualificare la spesa pubblica è il grande punto debole dei governi italiani, anche di quelli che vengono accusati di aver praticato l’odiata austerità.
La spesa corrente sul prodotto lordo negli ultimi vent’anni si è ridotta solo nel 2010, con i tagli lineari che sono costati cari a Giulio Tremonti. La spesa pubblica è una variabile indipendente. Negli anni ’70 lo erano i salari. Oggi lo sono le erogazioni dello Stato centrale, delle Regioni, dei Comuni. Nell’un caso e nell’altro è la spia della incapacità di fare politica guardando all’interesse collettivo.
Riassumendo, servono subito 29 miliardi (23 e rotti per neutralizzare l’aumento dell’Iva, il resto per le spese incomprimibili). Ebbene 14,4 miliardi verranno da un aumento del deficit, cioè stampando moneta, 7,2 miliardi dal recupero dell’evasione. Un miliardo e 800 milioni di euro deriva dal taglio dei sussidi ecologicamente dannosi (aspettiamoci una guerriglia dentro e fuori il Parlamento), altrettanto dal taglio di detrazioni e deduzioni fiscali che di fatto significa un aumento delle imposte dirette. Si tratta di 3,6 miliardi anch’essi incerti sia pure non quanto le entrate da evasione. C’è poi tutta la panoplia di tasse retoriche da quella sul web modello francese a quelle ambientali, il cui gettito è oscuro tanto quanto la loro configurazione, ma comunque modesto. E gli investimenti pubblici? Non se ne parla, nemmeno di quelli già finanziati. Vedremo che cosa conterrà la Legge di bilancio. Quanto agli investimenti privati adesso si parla di rifinanziare Industria 4.0, una misura che nel triennio 2015-2017 ha generato un vero e proprio boom nell’acquisto di macchinari, ma non è amata dai grillini.
Il catalogo è questo (più un serie di altre voci tra le quali la promessa di aumento degli stipendi per gli statali tutte da definire). Ma al di là della lista della spesa, quel che emerge non è tanto il limite quantitativo della manovra, quanto il suo ristretto orizzonte temporale e la sua modestia qualitativa. Per un Governo che vuole arrivare alla fine della legislatura non sono difetti da poco.