Considerato che la manovra economica di fine 2022 era stata disegnata nelle linee di fondo dal Governo Draghi, quella che si sta discutendo in questi giorni è la prima che viene presentata da un Esecutivo di destra. È una maggioranza numericamente forte e che si propone di durare per tutta la legislatura. Proprio per questo su molte misure dichiara che gli stanziamenti sono solo l’avvio di grandi progetti (è il caso delle grandi opere come il ponte sullo Stretto) e che si vedranno gli sviluppi prima della fine della legislatura.



Per quanto riguarda però le scelte economiche di fondo, individuare l’avvio di svolte profonde negli indirizzi e nelle scelte per lo sviluppo appare difficile. Se ci fermiamo alle dichiarazioni che presentano la manovra non si capisce il cambiamento rispetto al metodo dei Governi populisti di Conte. Le sottolineature sono ancora e sempre su bonus che vengono elargiti verso le categorie più varie. Anche la conferma del taglio del cuneo fiscale non si presenta come fatto strutturale ma come intervento a termine.



La brutta figura del taglio delle pensioni per medici e infermieri definisce meglio di tanti calcoli l’approssimazione con cui si sono affastellate proposte di risparmio con interventi sulla spesa pensionistica. In ogni caso sulle pensioni si è agito al di fuori delle trattative che erano in corso fra Governo e sindacati. Il risultato è che la mobilitazione sindacale sarà unitaria per chiedere il cambio delle norme pensionistiche per favorire flessibilità in uscita e non è detto che si riesca a frenare la spinta per uno sciopero generale.

La scelta di rivedere il Reddito di cittadinanza puntando sulla possibilità di rispondere alle nuove diseguaglianze e al lavoro povero con una nuova politica del lavoro non trova nella manovra economica la necessaria continuità con scelte a favore dello sviluppo.



Affrontare la sfida della crescita del lavoro di qualità per segnare una nuova fase di sviluppo della sostenibilità sociale richiede di affrontare i temi dei giovani e il lavoro, il basso tasso di occupazione femminile e il tasso di natalità, e sostenere politiche di crescita della produttività per una distribuzione del reddito che favorisca i salari. Non sono bonus, né nuovi sussidi che possono darci una prospettiva per affrontare questi temi che pesano sul nostro sviluppo futuro.

La previsione demografica ci dice che già nei prossimi anni avremo classi di età che entreranno nel mercato del lavoro con un deficit di circa 100mila persone rispetto alla classe di età che andranno a sostituire perché in uscita. Avremo bisogno in 10 anni di oltre un milione di persone in più disposte a lavorare.

Se teniamo conto che già oggi le imprese denunciano in quasi il 60% dei casi di assunzione la difficoltà a trovare persone con la formazione e le competenze necessarie possiamo valutare che al mismatching qualitativo se ne aggiungerà uno quantitativo che peserà sulla produttività del nostro sistema.

Per affrontare la sfida è necessario oggi prevedere i cambiamenti dei percorsi di istruzione e formazione. Un investimento in orientamento come non si è mai fatto nel nostro Paese è importante per aiutare giovani e famiglie a capire i cambiamenti economici che ci stanno investendo e che muteranno il nostro modo di lavorare.

Abbiamo anche un basso tasso di occupazione rispetto agli altri Paesi d’Europa. Soprattutto quello femminile è molto basso. Lavorare per innalzarlo stabilmente non può essere perseguito con bonus e sussidi che cambiano a ogni finanziaria. Servono investimenti per strutture per l’infanzia, ma anche misure fiscali permanenti a sostegno della natalità e delle famiglie.

La crescita del tasso di occupazione con lavori di qualità alta non può passare solo da politiche per l’occupazione. L’uso della spesa pubblica e la politica fiscale con cui la si finanzia sono determinanti per sostenere una nuova fase di crescita economica. Se ragioniamo con politiche di legislatura c’è modo di iniziare a contrastare le rendite e spostare risorse per politiche industriali che premino investimenti innovativi e crescita delle imprese. Specularmente lavoro e impresa devono essere fiscalmente favoriti rispetto alle speculazioni finanziarie o a rendite di posizione che bloccano una distribuzione più equa dei redditi.

Togliere i Btp e i risparmi postali dall’Isee non vanno certo in questo senso. La flat tax per le partite Iva nemmeno. Queste, come altre misure per l’accesso ai servizi pubblici del welfare, colpiscono ulteriormente la grande fascia di lavoratori autonomi o dipendenti che ruotano intorno ai duemila euro al mese. È la fascia di lavoratori che sopportano proporzionalmente la parte maggiore della fiscalità e che risultano ricchi per i sostegni del welfare. Continuare con le scelte attuali aggrava le diseguaglianze sociali è accentua una divaricazione pericolosa fra aree territoriali del Paese.

A sostegno delle scelte della maggioranza di governo si può portare solo la specularità delle proposte che vengono dalle principali forze di opposizione. Richiesta di maggiori bonus e pioggia di sussidi senza idee per la copertura.

Un’idea di sviluppo del Paese all’altezza delle sfide che il cambiamento economico in corso richiede non può che partire da un’idea di popolo e di partecipazione nuova. Bonus e sussidi sono l’economia politica del populismo. Assenza di orizzonte e di volontà di costruire nuove relazioni sociali. Il lavoro è prima di tutto relazione con l’altro, costruire percorsi sussidiari con cui fare politiche di sviluppo significa scommettere sulla capacità del popolo di reagire e costruire assieme la risposta per un futuro migliore. L’assenza di una visione di futuro riduce la spesa pubblica a rivoli di bonus che rispondono al populismo ma senza popolo.

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