Manca il colpo d’ala. La visione di Paese. Quella appena varata dal Governo appare e viene giudicata dal mondo delle imprese come la manovra del meno peggio. A essere generosi, s’intende. Perché per la crescita c’è davvero poco e quel poco che c’è viene annullato da una serie di provvedimenti la cui portata è tutta da verificare, ma che già si presentano come minacciosi. Se il recupero dell’impianto di Industria 4.0 è visto con favore, e così pure l’accenno di riduzione del cuneo fiscale (una manifestazione di buona volontà e nulla più), l’attacco frontale all’industria della plastica suscita preoccupazione nel metodo e nel merito. Nel metodo perché è mancato il confronto preventivo, nel merito perché le conseguenze negative rischiano di essere superiori ai vantaggi.



Nessuno contesta la necessità di rendere più verde e sostenibile la nostra economia – e d’altra parte l’Italia è già campione d’Europa nel campo dell’economia circolare -, ma minare di punto in bianco un intero settore che fattura miliardi e dà occupazione a migliaia di persone non è segno di saggezza. Le trasformazioni hanno bisogno di tempo e di misure per ammortizzarne gli effetti.



Un po’ come sta avvenendo per la filiera dell’auto, dove invece il dialogo si sta avendo e le soluzioni per andare verso tecnologie meno inquinanti, come quella elettrica promette di essere, si stanno cercando. In questo caso la partita è davvero grande perché i numeri in gioco sono altissimi e altissime sono le connessioni con i produttori europei e soprattutto tedeschi.

Scarsa attenzione è invece riservata alla formazione: scolastica, universitaria, tecnica. Nonostante quello che si dice nei convegni e si scrive sui giornali è questo un settore nel quale il mancato impegno è fin troppo evidente. Eppure, dicono in Confindustria, è da qui che può ripartire l’ascensore sociale: la possibilità di migliorare la propria condizione di vita attraverso lo studio.



Oggi più che mai. Perché accanto agli insegnamenti di base, che non vanno trascurati, occorre provvedere a una preparazione che sia in grado di stare dietro alle evoluzioni dell’impresa a sua volta ingaggiata in una competizione globale che, com’è noto, non fa sconti a nessuno. Il miglioramento della nostra offerta di beni e servizi dev’essere totale e nulla va trascurato.

Va difesa, in particolare, l’originalità dei nostri prodotti. L’autenticità di quel Made in Italy – che vuol dire bello e ben fatto – che tutti nel mondo c’invidiano e cercano di imitare. Dalla lotta alla contraffazione e all’Italian sounding (ciò che appare come italiano ma italiano non è) Confindustria ha valutato si possono recuperare 7 miliardi di fatturato e 100.000 posti di lavoro.

Insomma, gli spazi per rimettere in carreggiata il Paese ci sarebbero pure, ma andrebbero occupati con coraggio e senza cedimenti alla demagogia e al pregiudizio. Usando come volano i tanti miliardi, 70 ne contano i costruttori, per movimentare i cantieri che per qualsiasi motivo – quasi sempre di natura burocratica – sono fermi o chiusi con un danno incalcolabile all’economia nazionale.

L’urgenza di agire sul fronte delle infrastrutture trova d’accordo tutte le organizzazioni datoriali e sindacali – come si è dimostrato nel corso delle audizioni presso il governo – e non a caso è al centro dell’accordo firmato solo pochi giorni fa, come evoluzione del Patto della Fabbrica, da Confindustria Cgil, Cisl e Uil.

Quello che oggi occorre fare è mettere insieme e tenere uniti i pezzi più promettenti di una strategia che non può che essere di medio termine. Per conservare la nostra posizione di seconda manifattura d’Europa abbiamo bisogno di ammodernare il sistema Paese a partire dalle imprese, che accettano la sfida del cambiamento, costruendo per loro un ambiente che sia almeno non ostile.