Alt. Fermi tutti. L’Italia non è quel Paese di straccioni o di lavoratori poveri che emerge nelle cronache di questi giorni, con un governo impegnato a raschiare il fondo del barile alla ricerca di risorse che non ci sono. O a spremere le proprie energie per combattere la matrigna Bruxelles. Certo, i problemi esistono, a partire dai redditi bassi, ma non dobbiamo dimenticare che il Bel Paese, al 25esimo posto al mondo per numero di abitanti, per livello di Pil si colloca al decimo posto. A giustificare la nostra presenza nel mondo dei ricchi, poi, ci sono altri dati. Abbiamo, ad esempio, una bilancia dei pagamenti in attivo e siamo creditori verso il resto del mondo. Potremmo proseguire con altri dati, ma fermiamoci qui. Non vuol essere uno spot autocelebrativo. Per carità, quelli lasciamoli a Lollobrigida, il ministro della buona tavola, o alle iniziative della Santanché. Ma serve a ricordare che, pur in mondo sempre più complicato e interconnesso, abbiamo in mano le chiavi del nostro futuro.



Val la pena di ribadirlo alla vigilia del dibattito sulla legge finanziaria che sembra riproporre il solito vecchio schema su chi riesce a strappare qualche soldo in più per le proprie corporazioni di riferimento, salvo poi pretendere dalla Ue un atteggiamento morbido sul deficit di bilancio. È un atteggiamento dal respiro corto, che tende ad attribuire agli altri la soluzione di problemi nostri. Ma la pressione fiscale elevata così come i salari e le pensioni basse, per citare due punti dolenti, sono l’effetto, non la causa, di scelte sbagliate radicate nel tempo che hanno frenato la crescita negli ultimi decenni riducendo le risorse a disposizione. Per invertire la rotta sono necessarie riforme che consentano un rapido incremento della nostra produttività complessiva.



Quel che ci vuole insomma, è ragionare su un cambiamento profondo delle regole del gioco a partire da un sistema di relazioni industriali nuovo, capace di affrontare i problemi posti dalla transizione digitale. Il problema del lavoro non si deve affrontare partendo dal salario minimo o da uno sgravio fiscale sulle tredicesime, ma con l’attivazione di politiche attive del lavoro, sia per dare formazione adeguata ai giovani che ai lavoratori in uscita da produzioni obsolete e magari favorire, anche con qualche incentivo mirato, l’incontro tra la domanda e l’offerta. Vaste programme, per dirla con il generale De Gaulle. Ma l’Italia ha bisogno di un salto nel futuro. O, più semplicemente, di un approccio nuovo a questioni vecchie, ormai diventate luoghi comuni. Proviamo a fare qualche esempio.



Il ministro Giorgetti ha sollevato, giustamente, la questione della denatalità, sottolineando che la frenata delle nascite è così profonda da affossare sul nascere qualsiasi riforma pensionistica sostenibile nel tempo. Ma dal punto di vista della crescita economica, più che la popolazione è importante la dimensione della forza lavoro economicamente attiva. In questo caso, il quadro italiano non appare così allarmante e offre opportunità. Le proiezioni delle Nazioni Unite indicano che in un decennio la popolazione italiana in età lavorativa si attesterà intorno al livello dei primi anni 80, periodo in cui l’Italia era al primo posto in Europa per crescita.

Anche questo quadro, tuttavia, sottovaluta il potenziale. L’Italia ha il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro più basso dell’Unione Europea, pari al 61%. Se da qui al 2030 la partecipazione femminile in Italia raggiungesse la media dell’Ue (74%), il numero di lavoratrici aumenterebbe di circa 300mila unità. Se invece la partecipazione femminile in Italia raggiungesse l’85% della Svezia (la più alta dell’Ue) nello stesso periodo, il numero salirebbe a 2 milioni. L’aumento della partecipazione modificherebbe completamente la traiettoria della forza lavoro italiana, che passerebbe da una fase di contrazione a una di crescita nel prossimo decennio.

Basta questo a dimostrare che una buona parte dei problemi potrebbe essere risolto da una maggior partecipazione delle donne al mercato del lavoro, grazie agli asili-nido, ma anche ad un uso aggressivo della leva fiscale. Con effetti prodigiosi sulla produttività, il tallone d’Achille del sistema Italia che nell’ultimo decennio ha registrato la terza più debole crescita della Ue. Secondo l’Istat, il livello di istruzione delle donne italiane è più alto di quello degli uomini e i livelli di istruzione femminile stanno aumentando più rapidamente di quelli maschili. I vantaggi di un aumento della partecipazione femminile, oltre ad un aumento della quantità degli occupati, andrebbero a migliorare la produttività.

Ma non è solo questione di genere. la Commissione europea rileva che il tasso di istruzione terziaria dell’Italia è uno dei più bassi dell’Ue. Una leva politica fondamentale sarebbe quella di elaborare politiche volte ad aumentare il livello di istruzione per tutti, per migliorare ulteriormente la crescita della produttività italiana e avvicinarla alla media dell’Ue.

L’elenco delle cose da fare, naturalmente, è assai più lungo. Ma la rapidità del cambiamento degli orizzonti dell’economia globale impone di muoversi alla svelta. Sarebbe necessario poter contare su regole che favoriscano l’aggregazione di imprese per poter affrontare con mezzi adeguati gli investimenti nelle innovazioni tecnologiche che stanno investendo a getto continuo i sistemi più sviluppati e nello stesso tempo affrontare da protagonisti i problemi del mercato globale. L’esatto opposto della filosofia che sta dietro la richiesta di esentare le piccole banche dalla sciagurata tassa sugli extraprofitti che darà scarso gettito e molti problemi. Un buon esempio di quel che non si deve fare.

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