È la prima volta di Giorgia Meloni. Per la Legge di bilancio 2023 (al momento in cui questo articolo è stato chiuso il Cdm è ancora in corso, ndr) il Governo di destra-centro avrà a disposizione circa 32 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (21 miliardi) saranno destinati alla questione dell’energia, in generale come proroga delle misure venute a scadenza. Poi sarà operante la “dottrina Giorgetti”: qualsiasi intervento, salvo appunto le misure volte a contrastare il caro bollette, dovrà essere finanziato recuperando le risorse dallo stesso settore.
La regola sembra scritta apposta per le pensioni: l’introduzione di Quota 103 (62 anni di età + 41 di anzianità per il 2023) potrebbe essere finanziata da una stretta sulle rivalutazioni automatiche delle pensioni. In verità non si capisce bene come questo intervento potrebbe fornire una copertura alla nuova quota. Infatti, la perequazione automatica comporta un incremento di spesa (il ministro Giorgetti l’ha quantificata in 50 miliardi in un triennio). Pertanto la manipolazione del meccanismo comporterebbe una minore spesa, non una maggiore entrata. Il sistema vigente è quello “storico”, ripristinato nella sua interezza dal Governo Draghi dopo molti interventi correttivi nel corso dei decenni, poiché tagliare la perequazione automatica è il solo modo per fare cassa subito: la prestazione verrebbe rivalutata al 100% fino a un importo pari a tre volte il minimo, del 90% da tre a cinque volte, del 75% per le quote eccedenti. Sembra che il Governo abbia intenzione di ridurre al 50% l’aliquota sulle fasce di retribuzione più elevata o prevedere addirittura un intervento di riduzione a partire dai trattamenti di importo sui 2.100-2.500 euro lordi mensili.
Una misura siffatta determinerebbe una sostanziale beffa per gli eventuali beneficiari di Quota 103, perché sono proprio i soggetti – che hanno le condizioni per il pensionamento di anzianità – a percepire in media un assegno di quella misura. Paradossalmente sarebbero proprio i beneficiari a pagarsi il beneficio.
Poi c’è un altro problema che non è ancora emerso. Con Quota 103 il Governo creerà un altro “scalone”. Un ragionamento compiuto si potrà fare solo in presenza della norma, ma da quanto si è capito non sarà sufficiente arrivare a Quota 103 sommando addendi dotati di una certa flessibilità: per esempio, 63 + 40 oppure 64 + 39 o 61 + 42. Sono – a quanto pare – requisiti rigidi sia quello anagrafico di 62 anni che quello contributivo di 41 anni. Era così anche nei casi di Quota 100 e di Quota 102. Se i due requisiti non concorrevano a raggiungere la quota insieme e nello stesso arco di tempo (cosa che è avvenuta un numero limitato di volte), gli anni che mancavano a maturare uno dei requisiti determinavano un innalzamento anche dell’altro. Per capirci: se, vigente Quota 102, un soggetto nell’anno in corso si trovava ad avere 64 anni di età ma 36 di contributi, avrebbe potuto raggiungere i 38 anni canonici a 66 anni (un anno prima del requisito di vecchiaia).
Il feticismo per Quota 41 e il vizio ricorrente di abbassare l’età pensionabile hanno condotto il Governo ad abbassare l’età minima a 62 anni e ad alzare il requisito minimo a 41 anni, mentre in precedenza dal passaggio da Quota 100 a 102, a fronte dello stesso requisito contributivo (38 anni) era in crescita il parametro anagrafico. In sostanza, se occorrerà un’anzianità di servizio più elevata, crescerà automaticamente anche il requisito anagrafico. Se non saranno introdotti correttivi, peraltro molto onerosi, tali da rendere flessibili non la somma ma gli addendi, altri scaloni saranno determinati dall’inversione tra i criteri della età e dell’anzianità.
Mettiamo il caso di un soggetto che nel 2022 abbia maturato 62 anni e 38 di contributi. A legislazione vigente (se fosse confermata), avrebbe dovuto lavorare altri 2 anni per arrivare a 64 anni (acquisendo di conseguenza 40 anni di anzianità contributiva). Questa stessa persona, nel 2023, si troverà ad avere 63 anni e 39 di contributi. Per arrivare a 41 dovrebbe lavorare altri due anni e raggiungere, così, 65 anni di età. In ambedue i casi quel soggetto l’anno prossimo non andrà in pensione. Ma l’agognato traguardo sarà più lontano. E i 62 anni li avrà passati da un pezzo.
Quanto al taglio del cuneo fiscale, il Governo provvederà sulla base delle risorse disponibili. Si ipotizza un intervento differenziato per i redditi fino 20mila euro e 35 mila euro l’anno. Pertanto ci dovrebbe essere un ulteriore aumento di stipendio per coloro che hanno un reddito inferiore a 20mila euro, 1.538 euro al mese. Per questi, infatti, lo sgravio contributivo verrà portato dall’attuale 2% a un più favorevole 3%, con un risparmio fino a 15 euro in più al mese. Inoltre, il Governo promette che si tratta solamente di un primo passo: nei prossimi anni, infatti, si cercherà d’innalzare la soglia che oggi dà diritto allo sgravio in oggetto, pari appunto a 35 mila euro, oltre ad aumentare la misura complessiva dello sgravio al 5%, di cui due terzi saranno applicati sull’aliquota a carico del dipendente e un terzo su quella a carico dell’azienda.
Novità anche sul fronte flat tax, che tuttavia sarà una misura di portata limitata in quanto si rivolgerà solamente ai lavoratori autonomi, come pure sulla nuova rottamazione che porterà alla cancellazione delle cartelle sotto i mille euro. Quest’ultima misura servirebbe in realtà a semplificare le procedure di riscossione che costituiscono uno dei problemi più seri del nostro sistema fiscale. Meriterebbe una discussione più seria l’innalzamento a 80-85mila euro dell’imponibile soggetto ad aliquota del 15%. Non si comprendono le ragioni per le quali un lavoratore dipendente con quel reddito debba essere tassato con un’aliquota marginale intorno al 40%, mentre una partita Iva debba veder confermata l’aliquota già ridotta in precedenza. Nessuno si è accorto che quel lavoratore dipendente oltre a un livello di tassazione superiore deve mettere in conto anche l’esclusione da tutti i benefici sociali concessi in base alla certificazione Isee? E che la parte preponderante dell’Irpef grava sui redditi superiori ai 35mila euro che solitamente vengono esclusi da tutti i benefici?
C’è poi una revisione del Reddito di cittadinanza differenziata per l’anno prossimo e a regime che prevede una riduzione del periodo di godimento e un maggior rigore nell’avviamento al lavoro. Ma l’accordo nel Consiglio dei ministri si è realizzato appena in tempo per spegnere le luci. Vedremo e capiremo meglio nelle prossime ore, quando sentiremo “cantare” la carta.
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