Se da un lato si parla di “etica della cura” come di una di quelle formule magiche, destinate a restituire senso e significato ad un tempo come il nostro, inaridito dall’aggressività e dall’indifferenza reciproca, dall’altro è drammaticamente evidente come non si trovino abbastanza persone decise a dedicarsi ai lavori di cura con la competenza e la professionalità necessaria.



In questo modo si vanno moltiplicando quelle forme di solitudine e di fragilità che avrebbero bisogno di un approccio intensamente relazionale. La fatica nel reperire e fidelizzare infermieri, assistenti sociali, educatori professionali, Asa e Oss, sta mettendo a dura prova il settore della cura nelle sue molteplici forme, sia nella cooperazione sociale che negli enti pubblici e privati impegnati nel promuovere e gestire servizi di welfare. Soprattutto quando si tratta di un welfare altamente qualificato sul piano socioassistenziale in cui è difficile separare l’essenza dell’assistenza sanitaria da quella più squisitamente sociale. È un campanello di allarme importante quello che si leva dal settore della cura; allarme da tenere in forte attenzione perché la carenza di personale mette di fatto a rischio la tenuta complessiva dell’intero sistema dei servizi ai cittadini, in particolare a quelli più fragili.



Basta vedere i recenti test di ingresso nelle facoltà frequentate da quanti stanno progettando il loro futuro in campo sociosanitario. Sono circa 21mila gli studenti che il 5 settembre hanno affrontato i test di ammissione previsti per l’accesso ai corsi di laurea in Infermieristica: posti disponibili 20.435, il che significa che teoricamente potrebbero entrare tutti, senza alcuna selezione. Con un effetto paradosso, e cioè che mentre i posti disponibili aumentano, per tentare di risolvere la carenza di infermieri, le domande di accesso, tra atenei pubblici e privati calano, per almeno un 10%. Il trend negativo coinvolge non solo gli infermieri, ma tutte le professioni di cura e pone immediatamente in evidenza come il problema della carenza di personale dipenda soprattutto da una scarsa attrattività che oggi queste professioni esercitano soprattutto per i più giovani.



E probabilmente la scarsa attrattività non è stata analizzata, almeno finora, con la dovuta attenzione. A cominciare dalla modesta retribuzione degli operatori del settore, eternamente bloccata da bisogni più impellenti. Non si tratta però solo dell’aspetto economico, dal momento che è in atto una vera e propria crisi identitaria, strutturale, che richiede una analisi più approfondita per guardare ad un futuro in cui il SSN potrebbe trovarsi drammaticamente a corto di personale, esposto a dinamiche di dispersione e turnover difficilmente controllabili. Obbligato ad attingere a personale proveniente dall’estero con diversa lingua e diverse competenze, non sempre funzionali ai bisogni dei pazienti più anziani, più gravi e più fragili.

Il riconoscimento e il rilancio delle professioni di cura richiede un pensiero sistemico, che prevede azioni diversificate da mettere in campo sia nell’immediato sia a medio e lungo termine. A volte la sigla SSN traduce la prima S con Sistema, altre volte con Servizio, in un equivoco denso di significati, che implicano sia una visione di sistema che di servizio. Entrambe in crisi. Perché se la questione economica (lo stipendio!) non può certamente essere elusa, hanno altrettanta rilevanza anche i modelli di organizzazione adottati sul territorio, il coinvolgimento progettuale degli operatori, la programmazione delle singole realtà operative, l’iper-burocratizzazione di certe prassi, gli eccessi di standardizzazione e di omologazione dei servizi.

In altri termini, rischia di venir meno l’approccio valoriale ed organizzativo dell’intera attività professionale che ha perso la motivazione di cura, che ne faceva un vero e proprio agente di cambiamento sociale, per ridursi ad un mero erogatore di prestazioni. Anni fa gli infermieri vinsero una storica battaglia passando dagli adempimenti del mansionario ad una scelta di modelli di lavoro per obiettivi; il che implicava etica e competenza e aveva nel codice deontologico il proprio punto di riferimento. Il sapere e il saper fare avevano decisamente superato il famoso fare, acquisito come prassi consolidata.

In questa logica si è passati da una ccuola professionale, sia pure di alta professionalità, a veri e propri corsi di laurea, triennali e magistrali, a master di primo e secondo livello, per arrivare a dottorati di ricerca molto sofisticati, da cui sono emerse figure professionali altamente specializzate, a cui è affidata la direzione infermieristica complessiva negli ospedali e sui territori, compiti di ricerca con il coordinamento di diversi centri, direzione di aree e servizi di nicchia importanti per livello di complessità e responsabilità.

Molti infermieri sono docenti universitari, presidenti di consiglio di corso di laurea e qualcuno vicerettore. Ma sono realmente in pochi, complessivamente, quelli che riescono a raggiungere questi vertici di professionalità in un campo in cui non si potrebbe assolutamente fare a meno dell’infermiere simpliciter. Coloro che restano infermiere al 100% dopo un percorso di studi che oscilla tra i 3 e i 10 anni (5 per la laurea magistrale, 3 per il dottorato, 2 per master specifici), ritengono del tutto inadeguato il livello retributivo e le aspettative professionali. Tanto più quando si va facendo strada, in modo per ora discreto e sommerso, ma non per questo meno aggressivo, la convinzione che in fondo basterebbe un corso di poco più di un anno per acquisire le competenze base per esercitare la professione.

Asa, Oss, assistente infermiere, è tutto un ritorno al passato: il vecchio infermiere generico “usato” strumentalmente prima dal medico ora da infermieri più colti e competenti, che avrebbero primariamente un compito di formazione-organizzazione. Come dire, a trent’anni dall’istituzione dei corsi di laurea per infermiere – inizialmente denominati diplomi universitari -, che tutta questa strada percorsa, questo sapere sviluppato e trasmesso, in fondo è un di più, che fa cultura ma che non serve per migliorare direttamente e concretamente l’assistenza ai pazienti, tutt’al più serve per far carriera.

Il presupposto di questo approccio sbagliato è che la cura resterebbe una attività a basso livello di competenza, anche se ad elevato livello di necessità. Invece ogni paziente ha bisogno di essere curato nel miglior modo possibile. La sua effettiva centralità richiede il massimo della qualità di cura, in una logica che include bisogni fisici, psicologici e spirituali. Tutte forme di relazione diversa, ma tutte irrinunciabili; per questo la laurea, e ogni tipo di formazione aggiuntiva, ha in lui, nel paziente, il suo costante punto di riferimento, che include saggezza del cuore, senza affatto escludere un sapere professionale che si spinge fino alle soglie della intelligenza artificiale.

Sapere di più per servire meglio e di più, non solo per far carriera, aspirazione per altro legittima. La qualità del lavoro infermieristico non si misura solo dalla complessità organizzativa a cui è capace di fare fronte, e neppure dagli obiettivi di ricerca che è in grado di raggiungere o dalla chiarezza con cui entra in classe per spiegare alle nuove generazioni temi e problemi inediti fino a quel momento. È nel nodo cruciale dell’assistenza che tutte le altre cose acquistano valore e significato; nel rapporto irripetibile con quel paziente, con la molteplicità dei suoi bisogni e di quelli della sua famiglia. Non a caso il tempo della relazione coincide con il tempo di cura.

Ed è su questa base che occorre attrarre nuovi professionisti, con azioni e progetti di volontariato che iniziano nelle scuole e proseguono nelle università, insegnando loro a prendendosi cura delle persone più fragili e di quelle che già lavorano in questo campo; impegnandosi in iniziative di cura e di assistenza che iniziano nel contesto familiare, per condividere la visione e la responsabilità della fatica della cura. Le generazioni più giovani devono capire il valore del tempo, sapendo che la prima e più profonda differenza sta proprio tra il tempo di chi assiste e quello di chi è assistito.

In definitiva, semplificando, le leve più importanti per rendere più attrattivo il lavoro infermieristico, e per analogia quello delle altre professioni sanitarie, sono tre:

– restituire al lavoro di cura il senso e l’importanza che ha la cura in sé stessa: la cura al centro;

– creare un contesto socioculturale in cui professionisti e professioni di cura hanno il massimo rispetto;

– retribuirle in modo adeguato e proporzionato al servizio prestato e alla qualità degli studi affrontati.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI