Tanto tuonò che alla fine la Legge di bilancio è stata votata. Per il turismo sono state confermate tutte le voci che avevamo già ampiamente preannunciato (e che comunque andranno messe a terra con opportuni decreti attuativi): i voucher per i lavoratori stagionali; il fondo per accrescere il livello e l’offerta professionale nel turismo (5 milioni di euro per il 2023 e 8 milioni in ciascuno degli anni 2024 e 2025); il fondo per i piccoli comuni a vocazione turistica (10 milioni per il 2023 e 12 per ciascuno degli anni 2024 e 2025); il fondo per il turismo sostenibile (5 milioni per il 2023 e 10 per ciascuno degli anni 2024 e 2025); il fondo per l’ammodernamento per gli impianti di risalita (30 milioni per il 2023, 50 per il 2024, 70 per il 2025 e 50 per il 2026).
In totale, per il prossimo anno si parla quindi di una cinquantina di milioni su una legge che vale circa 35 miliardi, per un comparto che vale più del 13% del Pil e che, nonostante la forte ripresa, s’appresta a chiudere l’anno su numeri ancora distanti da quelli pre-pandemia, per di più con le marginalità erose dall’inflazione e dal conto energetico.
Ma l’orizzonte del turismo italiano è ancora più oscurato dall’incertezza fiscale e finanziaria. Tra le decine di proposte avanzate dai ministeri prima del voto finale, il MinTur aveva proposto la proroga della moratoria fino a tutto il prossimo anno sui mutui, sugli altri finanziamenti e sui contratti di leasing per le imprese del settore turistico in crisi di liquidità. Ma sulla stesura della manovra che sta circolando non sembra se ne faccia cenno: la prudenza s’impone, visti i tanti capitoli della legge e gli immancabili, frequenti rimandi a decreti successivi.
Nel frattempo, un emendamento approvato già in Commissione bilancio consente ai Comuni capoluogo di provincia di alzare la tassa di soggiorno a 10 euro, se hanno registrato presenze turistiche 20 volte superiori a quelle dei residenti (faranno fede i dati Istat sul triennio precedente all’anno in cui viene deliberato l’aumento). Protestano gli albergatori (sostenendo che lo scopo originario della tassa era l’aiuto al turismo dei territori, mentre invece quei soldi vanno rinfusamente nelle casse delle amministrazioni), e plaudono i Comuni, che però chiedono l’estensione del provvedimento anche per i centri minori: così com’è, il disposto sarebbe applicabile solo in ben poche città.
E infine arriva negli aeroporti la nuova tassa d’imbarco: già votata dal Comune di Venezia (si pagheranno da 1 a 3 euro di addizionale per arrivare o partire dal Marco Polo, un costo aggiuntivo che porterebbe a 9 euro complessivi l’imposta per passeggero), e appena rincarata a Napoli (2 euro, per una tassa compressiva di circa 8,5 euro a passeggero). Una misura che sta alimentando le minacce di molte low cost (Ryanair, EasyJet, Volotea), che si son dette pronte ad abbandonare gli scali “esosi”, le proteste degli operatori (che temono la contrazione di viaggiatori) e dei consumatori (che sottolineano come molti scali siano obbligati per moltissimi lavoratori).
Un’industria del turismo, insomma, ancora vittima di incertezze e venti non esattamente favorevoli. Con un’altra forte turbolenza in arrivo: la questione balneari, che scarroccia la maggioranza a destra e a sinistra, con FI che chiede un’ennesima proroga delle concessioni in essere (ampiamente negata dall’Ue e dal Consiglio di Stato), e la Premier che ai tempi “di lotta” s’era detta concorde, ma che in questi nuovi tempi “di governo” scanserebbe volentieri un contenzioso con l’Europa. Tutto fa pensare che anche il 2023 non sarà in discesa.
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