Che la diversità sia un valore per la sinistra italiana lo dicono tutti. Solo che poi è complicato far andare d’accordo le sue diverse anime. Una pratica che nei decenni ha dimostrato la sua innegabile assonanza con le fatiche di Sisifo, uno sforzo enorme e anche inutile. Solo che nel tempo almeno un punto è apparso chiaro ovvero che per governare si può anche non andare d’accordo su tutto perché i voti “puri” non bastano e ci si deve accasare con chi può portare in dote un pezzo di consenso per gestire il potere.
Questa filosofia è stata per anni la vera cifra culturale del Pd, che nel suo DNA ha la voglia di andare al potere e di gestirlo e che pretende di essere, e forse lo è, il baricentro di ogni alternativa al Governo a cui non prende parte. Il Pd resta ed è il fulcro del potere antagonista al centrodestra, ovviamente, ma per essere efficace deve saper aggregare e aggiungere ai suoi voti quelli degli altri.
Lo sanno bene i suoi elettori che si mostrano da sempre più malleabili e tolleranti rispetto all’unione con altri soggetti politici e che (come mostra il sondaggio di Demos per Repubblica, secondo il quale il 59% degli elettori dem sono favorevoli al “campo largo”) danno per scontato il fatto di doversi alleare. Il punto è che l’equidistanza del Pd tra gli alleati alla sua sinistra e al suo centro non riesce ad accorciare le distanze tra loro. In particolare, tra gli elettori del centro che guarda a sinistra e tra quelli che ormai si fa fatica a definire 5Stelle o grillini. Questi ultimi, in particolare, sempre secondo il sondaggio Demos, sono convinti ancora della loro unicità e purezza e vedono ogni commistione con gli “altri” come una perdita di valori e di interessi tale da non essere giustificata neppure dall’ipotesi di andare al Governo. I centristi, per parte loro, sentono addosso ancora le ferite dello scontro con la sinistra massimalista e i puri del Movimento 5stelle e, con sdegno quasi, rifiutano un’ipotesi di alleanza. Solo il Pd può metterli d’accordo e far trovare loro una sintesi. Ma come?
La strada è quella di scendere nel merito di una proposta di governo e discernere, fino allo sfinimento, valori e prospettive fino a trovare un minimo comun denominatore che li renda aggregabili e meno distanti. Che sia possibile lo dimostra il Governo Meloni che ha le sue gatte da pelare tra alleati in politica estera, sul tema dell’autonomia differenziata e sulla gestione della proposta di ius scholae; eppure, avanza e realizza quello che ritiene essere un efficace programma di governo.
Elly Schlein, dopo la legittimazione delle europee e dopo aver di fatto superato i tranelli interni si avvia a essere la Segretaria che gestirà questa delicata fase. Venendo da posizioni di nitida contrapposizione all’ex gruppo dirigente avrà il compito di rimettere assieme i cocci e di trovare una sintesi tra le diverse posizioni se vuole tener fede al suo incarico e seguire quella che resta la vocazione del suo partito. Ovvero essere centrale, trainante e determinate per una proposta politica di alternativa al governo in carica. Quando il Pd è andato da solo, con Renzi, o con Bersani, è sempre stato sconfitto nelle urne e solo quando Prodi ha costruito una coalizione variegata e ampia ha vinto nelle urne e governato, seppur a fatica, il Paese.
Di qui la sfida, meglio duri e solitari o vincenti e aggregati? Gli elettori del Pd hanno dato la risposta, sono pronti a unirsi agli altri e guidare, con i numeri, una competizione elettorale per il Governo. Il più è fatto, parrebbe, resta solo convincere gli altri con un programma di governo serio e convincente. Sarebbe una rivoluzione. Quella sì diversa, da duri veri.
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