Lo spettacolo offerto da Parigi al mondo intero per l’apertura dei giochi olimpici del 2024 non ha nulla di casuale, non è l’opera di sceneggiatori creativi scelti per le loro qualità e messi a costruire e dirigere la più imponente manifestazione nazionale del decennio, ma corrisponde all’attuale sintesi politico-culturale che la maggioranza di governo uscita dalle elezioni del 7 luglio ha scelto di proporre.



La manifestazione non si è quindi svolta, come tradizionalmente avviene, in uno stadio: lo scenario ideale per salutare gli atleti che sono il cuore dei giochi olimpici di ogni epoca, e dove le tribune sono al coperto. Al posto del più che capiente Stade de France si è scelta la Senna, dove si poteva dare spazio al vero obiettivo dello spettacolo che non era affatto costituito dall’inaugurazione dei giochi olimpici e tanto meno dagli atleti provenienti da tutti i Paesi del mondo. Ciò che si è svolto è stato invece una sorta di happening volto a presentare la nuova realtà sociale e culturale che l’attuale élite politico-culturale vede apertamente presente nella società contemporanea, colpendo e stupendo gli spettatori con tutte le risorse che le nuove tecnologie rendono possibili.



Ciò che è stato inserito rivela quindi come l’attuale classe dirigente veda il Paese, la visione del mondo che la alimenta e che ne struttura l’orientamento culturale. Ne è emersa un’immagine selettiva e più che discutibile della Francia e della sua storia.

Gli snodi centrali sono stati infatti quelli della Rivoluzione, della nuova realtà multietnica e della fluidità di genere. Scelte da poco? Certamente no. Se non altro per il prezzo, culturale e morale al tempo stesso, che hanno implicato.

Il primo – e probabilmente il più imbarazzante – è stato proprio quello di mettere in secondo piano i protagonisti reali delle olimpiadi di ogni epoca che sono gli atleti. Anziché sfilare in uno stadio con la propria bandiera, questi sono stati ammassati su delle imbarcazioni dalle quali hanno potuto salutare la folla solo per i pochi secondi nei quali ogni singolo bateau è transitato dinanzi alle telecamere e agli spettatori ammassati sulla riva. Il secondo – non meno grave – è stato quello di umiliare le rappresentanze di governo degli Stati, con il nostro Presidente della Repubblica abbandonato sotto una pioggia torrenziale, anziché nella tribuna coperta che certamente uno stadio avrebbe messo a disposizione. Ma il terzo – e probabilmente quello nel quale all’imbarazzo si sostituisce il disappunto – è stato costituito dalla visione assolutamente parziale, ideologica e sconcertante al quale la Francia è stata ridotta.



Dietro il refrain della Marseillaise costantemente ripetuto è emersa solo la Francia della Rivoluzione del 1789 e poco e nulla è apparso dei secoli di cultura e di arte (compresa l’arte di governo) che l’hanno preceduta. Così come nulla è apparso nemmeno della Francia emersa nei due secoli che hanno fatto seguito ai fatti rivoluzionari; con gli eventi storici che l’hanno attraversata e colpita, ma anche con gli sviluppi nella ricerca, nella cultura e nelle arti che vi si sono manifestati.

Eppure è proprio grazie anche a questa Francia post-napoleonica, del Secondo Impero e della Terza Repubblica, questa France à réfaire, indicata daZola nel suo La débâcle, uscita dal disastro della sconfitta militare del 1870 e della guerra civile che vi ha fatto seguito, che è nata la Parigi che conosciamo, con i suoi boulevard e le sue biblioteche, il suo rispetto della cultura e della memoria, i suoi bistrot e le sue associazioni dove credenti e non credenti invitavano il laico Durkheim a presentare il suo capolavoro sulle “forme elementari della vita religiosa”. Dove un Jean-Paul Sartre ha potuto imbattersi in un Albert Camus e in un Raymond Aron. Dove gli stessi “popoli altri”, hanno trovato spazi e istituzioni per presentarsi e farsi conoscere. Dove un Claude Lévi-Strauss e un Louis Dumont hanno trovato non solo i finanziamenti per le loro ricerche ma anche e soprattutto le aule per insegnare e un pubblico per essere ascoltati.

È a questa Francia che possiamo ricondurre il tentativo, estremamente ardito, di creare una cultura condivisa, dove tutti avrebbero imparato ad amare, accanto a Molière, Victor Hugo, Balzac e Flaubert anche Ariosto, Leopardi e Pirandello. Dove tutti, accanto allo studio di Pascal, Descartes e Montaigne, avrebbero aggiunto quelli su Dante, Machiavelli e Gianbattista Vico. La Francia dove la cultura precede la politica e bacchetta ogni ideologia – il marxismo vetero-stalinista per primo – pubblicando i samizdat di Alexander Solgenitsin e Vasilij Grossman.

A una tale evocazione della storia di Francia, come ci si sarebbe ragionevolmente atteso, è stata invece preferita quella della sua riduzione agli stereotipi più diffusi e commercialmente più spendibili (dai giochi di corte ai funamboli delle fiere, passando per le donne barbute). Ma soprattutto è stata sostituita dalla volontà di celebrare un’identità nuova, “inclusiva”. Un’identità che si è voluto a tutti i costi rendere dominante.

Si spiega solo così la forza d’urto di immagini e coreografie, volontariamente provocatorie e dirompenti delle quali nessuno sentiva il bisogno: né la storia di Francia, né gli spettatori, né ancor meno gli atleti.

L’élite culturale che attualmente detiene il bastone del comando ha colto così l’occasione dei riflettori per insegnare il nuovo decalogo, dove al vecchio motto di libertà, uguaglianza fraternità si è preferito quello, più aggiornato, di parità, sorellanza e inclusività. La lezione è stata impartita con volontaria severità, la nuova linea è stata dettata in modo interlocutorio: oggi il mondo è questo. Da qui la necessità della revisione coreografica dell’Ultima Cena, dove i trans hanno preso il posto degli Apostoli e una DJ quello di Gesù di Nazareth: nulla di casuale, solo la volontà di dirlo in modo diretto, alto e forte, almeno per chi, fino a quel momento, aveva cercato ancora di tollerare, giustificare, cercare di capire.

E poco importa se i credenti si sono sentiti offesi: nulla è sacro là dove tutto è fluido. Si è effettuato così un vero e proprio blitz culturale, distribuendo carte nuove e mappe nuove. Durerà? Non credo. Per Alain Finkielkraut l’abbondante pioggia caduta su di una tale baracconata ha costituito la prova dell’esistenza di un Dio che, verosimilmente, aveva perso anche lui la propria pazienza.

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