Manuela Villa, in un racconto intenso ai microfoni di “Verissimo”, trasmissione di Canale 5 condotta da Silvia Toffanin, ha parlato del suo percorso professionale e di vita. L’artista ha esordito dicendo che la sua infanzia, fino ai dodici anni, è stata meravigliosa, perché il suo nucleo familiare era “normalissimo, fatto di famiglia, di casa, di tante cose di cui io nemmeno riuscivo a rendermi conto, all’epoca. Consideravo Elio mio padre a tutti gli effetti: avevo due anni quando lo conobbi e appena entrò in casa lo chiamai ‘papino’. Inizialmente portavo il cognome materno e mia madre tentava di glissare sull’argomento per non crearmi un trauma: mi diceva che il prete si era sbagliato nel trascriverlo sul documento”.
A dodici anni, però, Manuela Villa fece uno scherzo a una suora: “Le feci trovare un fantoccio nel letto, sembrava un uomo! Lei vide che ridevo e mi fece una battuta brutta: ‘Ringrazia quell’uomo che ti mantiene, altrimenti staresti qui dentro e non l’avresti passata liscia!’. Io mi trovavo in quel collegio casualmente, perché mia zia era una suora. Allora, ho chiesto a quest’ultima cosa volesse dire quella frase: lei si arrabbiò tantissimo con quella sorella. Pochi giorni dopo le ridomandai perché non portassi il cognome di mio padre e fu lei a spiegarmi tutto quanto”.
MANUELA VILLA: “MI SONO SENTITA PER ANNI INADEGUATA”
A quel punto, Manuela Villa avvertì l’esigenza di conoscere suo padre Claudio Villa. Sua madre non pose alcun ostacolo a questo desiderio e, come ha sottolineato la cantante a “Verissimo”, il primo incontro con suo padre, il ‘Reuccio della canzone italiana‘, fu bellissimo: “Lui era al di là della vetrata di una radio. Io, che ero lì con mio fratello e mia mamma, mi sono affacciata e lui mi ha fatto segno di aspettare. Era emozionatissimo: dopo il programma, barcollava da una parte all’altra. Era proprio il papà che volevo incontrare: era bello, bellissimo”.
Dopo 6 anni di frequentazione con la figlia, il 7 febbraio 1987, peraltro giorno del compleanno di Manuela Villa, Claudio Villa se ne andò. “Mio padre stava male, era stato operato – ha rammentato la donna –. Nessuno, però, pensava che potesse morire”. Sono serviti 21 anni affinché l’artista potesse portare il cognome paterno e ogni volta in cui lei cantava, non lo faceva per speculare sul padre, come tante malelingue hanno affermato a più riprese: “Per me il palco era una prova di Dna, era un’aula di tribunale nella quale io lottai anche per cantare. Quando salivo sul palcoscenico, era come se fossi sotto inquisizione. La società del tempo mi faceva pesare che io avessi il cognome materno e non paterno. I miei compagni di scuola ridevano, sghignazzavano. Mi sentii a lungo inadeguata”.