Nelle celebrazioni dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni la cosa più lontana dalle mie intenzioni è effettuare quella trista operazione di rivisitazione degli autori, che consiste nel costringerli dentro le categorie interpretative dettate dalla cosiddetta letteratura di genere, non solo perché personalmente rifuggo da tale schematismo astratto ed ideologico, ma soprattutto perché, per sua fortuna, quando Manzoni visse e scrisse tutto ciò non era neppure immaginabile, quindi non può essere stata in alcun modo una sua preoccupazione.
È vero invece che, come per Dante, la storia della salvezza ha avuto un percorso tutto al femminile (dal Paradiso si muovono la Vergine Maria, santa Lucia e Beatrice e solo in ultimo, ma da loro inviato, Virgilio) così per Manzoni la storia personale e in particolare quella della conversione al cristianesimo è una strada che passa attraverso le donne. Non a caso sia in Dante che in Manzoni il padre è assente: Dante perché orfano, Manzoni per la problematica relazione con Pietro Manzoni e per l’ombra del sospetto di non esserne il legittimo figlio. Di fatto, negli anni che Manzoni vive a Milano, sotto la tutela paterna, non c’è rapporto fra i due e, dopo la separazione fra Pietro e Giulia Beccaria, Alessandro viene mandato in collegio dai Padri Somaschi prima e Barnabiti poi, soffrendo molto per l’assenza della madre, che nel frattempo se n’è andata a vivere a Parigi.
Ne deriverà una insofferenza nel giovane Alessandro per l’educazione cattolica ricevuta e un tenace desiderio di poter andare in Francia e ricongiungersi con la madre. Così nell’animo di Alessandro la fede cattolica diviene espressione dell’odiato mondo paterno e la Parigi mondana, anticlericale, capitale dei principi illuministi, dove abita Giulia, è la proiezione idealizzata del suo amore per la madre. Anche la figura di Carlo Imbonati, amante di Giulia, cui Alessandro apre il cuore e verso cui corre, quando nel 1805 ottiene finalmente il permesso di raggiungere la madre a Parigi, incarna il ruolo di padre putativo, che però Manzoni non potrà mai sperimentare realmente, perché, per uno scherzo del destino, Imbonati morrà poco prima che il giovane giunga nella capitale.
Il rapporto con il “padre” resta dunque una chimera, un sogno, che non si incarna mai veramente nella vita di Manzoni. Comincia, invece, negli anni parigini, il rapporto pieno di affetto e amore per la madre Giulia, che lo seguirà, quando Alessandro si converte e decide di ritornare a Milano, per vivere insieme fino alla di lei morte. In suo onore Alessandro chiamerà Giulia la prima figlia. Ma la donna senza dubbio più significativa della sua vita fu Enrichetta Blondel, prima moglie di Manzoni e suo unico, grande amore. Ma Enrichetta per Manzoni non fu solo questo, fu anche l’incontro decisivo dal punto di vista esistenziale. Egli si innamorò della dolcezza e insieme della forza di questa donna; della sua mitezza e della sua luce e non tardò a ricondurre l’attrattiva che ne scaturiva alla sua intensa spiritualità. Ora, al momento del matrimonio, Manzoni è un intellettuale dichiaratamente ateo, autore di opere poetiche sprezzantemente anticlericali e inneggianti ai valori della Ragione e della Libertà illuministe. Enrichetta, invece, vive una profonda fede di confessione calvinista.
Ma Manzoni è un uomo che da sempre sente profondamente la vita: “Sentir e meditar” è l’eredità intellettuale che gli ha lasciato Carlo Imbonati. Vivere per lui significa cercare il senso dell’esistenza, quel “Santo Vero”, cui laicamente si era immolato proprio nell’Ode a Carlo Imbonati. L’amore per Enrichetta, la cui luce egli ha riconosciuto originarsi dalla fede, innesca in Manzoni un cammino di riflessione. La decisione di battezzare la prima figlia Giulia dice già di questo lavoro di scavo, di questo “meditare” che porterà Manzoni di lì a pochi anni a risposarsi con Enrichetta con rito cattolico e a intraprendere, assieme alla moglie, un cammino di catechesi con l’abate Eustachio Degola, che lo condurrà fino a quel 2 aprile 1810, alla famosa “improvvisa” conversione: durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone a Parigi, la gente comincia a scappare, presa dal panico per lo scoppio di alcuni mortaretti; Manzoni ed Enrichetta, presenti ai festeggiamenti, vengono travolti e divisi dalla folla e lui la perde di vista, riparando, disperato, nella chiesa di san Rocco.
Qui non sappiamo bene cosa successe (Manzoni fu sempre molto restio a raccontare l’episodio centrale della sua vita), ma nel momento in cui uscì dalla chiesa si ritrovò davanti Enrichetta: questo fatto fu letto da Manzoni come un segno e fu decisivo per la sua conversione. È impossibile non pensare a ciò che Beatrice è stata per Dante: un’apparizione che coincide con la salvezza (“Par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”), ed Enrichetta fu questo per Manzoni, per tutta la vita. Così la sua morte, avvenuta simbolicamente il 25 dicembre 1833, è la grande tragedia della vita di Manzoni, perché non è solo la perdita della moglie, ma, proprio come Beatrice per Dante, del segno più limpido, più vivido di Dio.
Da questo dolore straziante si spalanca quel dialogo drammatico che è Il Natale del 1833, grido lanciato ad un Dio Mistero che si fa carne, per condividere lo smarrimento e il dolore dell’uomo, che in quel Natale, per Manzoni, è il dolore della morte di Enrichetta. Non a caso, se il dialogo è con Dio, l’esergo dell’opera è tutto dedicato a Maria: “Tuam ipsius animam pertransivit gladius” (Anche a te una spada trafiggerà l’anima). Enrichetta resta, anche nella morte, la porta del dialogo fra Manzoni e Dio. Così l’inno alla nascita di Gesù Bambino si trasforma nella premonizione già della Sua morte: “Ma tu pur nasci a piangere, / ma da quel cor ferito / sorgerà pure un gemito, / un prego inesaudito: / e questa tua fra gli uomini / unicamente amata”. Finché parla della morte preconizzata di Gesù, Manzoni riesce a proseguire, ma quando parla di Maria, del suo dolore di madre e di donna e la definisce “fra gli uomini unicamente amata”, gli cade la penna (cecidere manus è la chiusa di questo capolavoro incompleto). Per Manzoni Maria è ora, ormai, per sempre, Enrichetta e viceversa.
E così quel dolore, anziché chiusa tomba, si fa dialogo, grido, pianto nell’abbraccio di un Tu. La storia di ogni uomo (e la storia tutta) è determinata da singoli fatti, da incontri, da eventi, da persone che disegnano una trama di senso e di destino. Questo è esattamente il concetto di provvidenza in Manzoni e nei Promessi sposi. Non una forza celeste che magicamente ed estrinsecamente agisce sulla storia degli uomini, ma una trama di uomini, di “genti nuove”, come Manzoni le definisce nella Pentecoste, che sceglie liberamente di vivere la fede, nella appartenenza alla Chiesa, al popolo di Dio.
Quel popolo che Manzoni racconta nella folla felice, che va, all’alba tutta insieme a far festa al Cardinal Federigo Borromeo e che segnerà l’inizio della conversione dell’Innominato, il personaggio più direttamente autobiografico dei Promessi sposi. Ma questo grande popolo, fatto di illustri personaggi (lo stesso cardinal Borromeo) e di uomini umili (fra’ Cristoforo), si specifica nella vita di ogni uomo in volti e nomi precisi. In quella di Manzoni, abbiamo detto, si declina al femminile: Giulia Beccaria, in gran parte artefice del fidanzamento e matrimonio di Alessandro, ed Enrichetta Blondel.
(1 – continua)
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