Qualche mese fa, durante un piacevolissimo weekend nelle campagne tosco-emiliane, mi sono ritrovato a confrontarmi con un caro amico, raffinato giurista e prestigioso magistrato, sul perché i napoletani, me compreso, fossero così legati al ricordo di Maradona e a distanza di anni continuassero a considerarlo un idolo. In fondo, era la sua argomentazione, si trattava pur sempre di un tossicodipendente con rapporti con la criminalità organizzata che si era preso gioco dei napoletani scappando via dalla città, abbandonando quei tifosi che l’avevano idolatrato come una divinità. I miei argomenti non riuscivano a fare breccia e tanto meno il racconto dei miei emozionati ricordi di ragazzino che la domenica allo stadio aveva avuto il privilegio di assistere alle magie del più grande giocatore della storia. La razionalità del mio interlocutore era inscalfibile. D’altronde, sebbene anch’egli napoletano all’anagrafe, il suo essere a digiuno della cinematografia di Totò rappresentava un ulteriore indice che mai sarei riuscito nell’intento. Rinunciai.



Poi, quando l’altro ieri, persino il tg2 ha nei titoli annunciato un servizio per il quarantennale dello sbarco di Maradona a Napoli, mi sono detto che dovevo allargare la platea e cercare definitivamente di far capire, non solo al mio amico magistrato, perché noi napoletani (tranne lui e forse un altro paio) adoriamo all’inverosimile quella canaglia argentina.



A fronte del luogo comune piuttosto consolidato che lo ritrae come uno straordinario calciatore, ma non una brava persona, vorrei provare a trasmettere come non sia esattamente così. La chiave è contenuta in uno straordinario libro letto pochi anni fa: Diegopolitik. L’ultimo grande leader del ’900 di Boris Sollazzo, in cui il racconto della vita di Maradona si snoda come una fiaba vera, una parabola autentica, tessuta di simboli, di immagini, suoni, sensazioni, arrivando a comprendere l’essenza di questo personaggio ovvero che lui, con le sue imprese calcistiche, ha fatto vincere i deboli, elevandosi, forse a torto, anche e soprattutto a loro rappresentante.



Noi, napoletani, prima che lui arrivasse, quel 5 luglio 1984, eravamo scarsi e perdenti. Persino il Cagliari aveva vinto uno scudetto, noi mai. L’anno prima del suo arrivo, io feci il mio esordio allo stadio: quell’anno il Napoli si salvò dalla retrocessione per un pelo e in quella partita vinse 1 a 0 con gol di tal Paolo Dal Fiume. Noi eravamo quelli. Per carità, anche Maradona quando sbarcò a Napoli non aveva vinto ancora niente: era famoso in tutto il mondo, ma non aveva vinto niente. Eravamo tutti dei perdenti, noi e lui. Ma lui non solo ci fece vincere; iniziò, come un Masaniello, a farci sentire capaci di ribellarci al predominio dei potenti.

Ecco, Diego Armando Maradona è stato uno straordinario leader politico. Come scrive Sollazzo, il rapporto tra Maradona e la politica non fu un dato astratto, occasionale, un divertissement o una mossa di marketing. Fu esattamente l’opposto. Siamo abituati alle star che, arrivate al successo, si dedicano a cause nobili, in modo inscindibilmente connesso con la promozione del brand che sono divenute. Non fu questo il caso di Maradona.

So che più di qualcuno storcerà il naso e mi taccerà di ingenuità, come il mio amico, ma a renderlo speciale era la lotta per la giustizia sociale che lui impersonificava. La lotta contro i potenti era nella sua carne fin dalla sua infanzia ma, a differenza di quasi tutti gli altri baciati da straordinari talenti e quindi fama e visibilità, Maradona ebbe la forza e la voglia di rimanere fedele a quegli ideali, non dimenticando mai né chi era né da dove veniva. A differenza di quasi tutti gli altri grandi campioni dello sport venuti dal basso, Maradona riuscì a non farsi davvero lusingare dall’establishment globale al quale le sue doti sportive gli avevano donato l’accesso. Anzi, ne fu strenuo oppositore. Anche all’eccesso.

Il matrimonio indissolubile col popolo napoletano lo si capisce solo se si comprende questa profonda dimensione politica di Maradona. Napoli lo ama ancora perché Maradona la scelse senza riserve, e lui la scelse senza riserve perché Napoli era una squadra, oltre che una città, perdente e lui voleva portare i perdenti a vincere. E ci riuscì, come nessuno mai. Non si tratta solo di sport. Avrebbe vinto molto di più nella Juve, nel Real Madrid, a Milano, ma sarebbe stato uno dei tanti campioni inseriti all’interno di tradizioni vincenti che semplicemente rinnovano il loro status quo, la cui gloria personale, pertanto, dura solo per quella stagione.

Ma attenzione, affermare ciò non significa nascondere le contraddizioni dell’uomo o ignorarne le debolezze. Una per tutte, per anni si rifiutò di riconoscere il suo figlio maschio napoletano, nonostante l’evidenza. Quell’ipocrisia, quella falsità, una volta consolidata sarebbe stata nella maggior parte delle occasioni confermata fino alla morte. Il chiedere scusa pubblicamente è un gesto che se non sana quella falsità, fa capire l’autenticità dell’animo. Ecco la seconda chiave di lettura: senza ergersi a giudice morale, come troppi amano fare, bisogna riconoscere che le enormi contraddizioni di Maradona ben rappresentano non solo quelle di una città “pazza” come Napoli ma direi le contraddizioni del Novecento a tutto tondo.

napolQuante volte da ragazzino ho pensato che avremmo dovuto vincere di più, in Italia e in Europa, che era deprecabile che il più grande giocatore della storia del Napoli il giorno prima di una trasferta a Mosca che avrebbe potuto farci passare agevolmente il turno di Coppa Campioni, si imbottisse di cocaina al punto da non avere la forza di alzarsi dal letto, lasciando i suoi compagni partire da soli. Poi ho capito. Nelle sue struggenti contraddizioni c’erano la sua forza e la sua debolezza. Esse non potevano essere scisse, perché in fondo era un uomo anche lui e pertanto neanche lui poteva riuscire a trovare una soluzione alle dilanianti contraddizioni del popolo napoletano, ma è sul crinale di queste contraddizioni serie, profonde, che vanno lette le complessità di Maradona, le sue scelte e quindi anche i suoi errori.

D’altronde, neanche noi napoletani l’aiutammo. Questo pure occorre riconoscerlo. Se è vero che in quegli anni rifuggiva ogni vero aiuto, è anche vero che la città, il popolo, la gente, non lo aiutò. Perché tutti avevano da guadagnare nell’assecondarlo, perché tutti volevano essere parte della sua vita, averlo dalla propria parte, a tutti i costi e lui non aveva la struttura culturale per resistere alle pressioni e alle tentazioni.

Razionalmente non è facile comprendere perché quel 5 luglio di 40 anni fa, oltre 70mila persone, pagando mille lire, andarono allo stadio per acclamare un campione che ancora non aveva vinto niente. In realtà la presentazione in sé non fu niente di particolare: Maradona disse poche parole (all’epoca non parlava ancora bene l’italiano), cominciando con un “buonasera napoletani”, e poi fece pochi palleggi al centro del campo. La cosa piuttosto irripetibile di quel giorno fu invece l’atmosfera, e l’attesa, ricordata da molte foto storiche diventate un simbolo di quell’avvenimento. Poi venne quel gol contro la Juve, calciando la punizione all’interno dell’area di rigore, come il primo straordinario gesto di riscontro che quella fiducia non era stata riposta invano. Maradona ha cambiato la storia calcistica, e forse non solo, della città di Napoli. Ci ha insegnato a vincere senza perdere l’essenza dell’essere uomini del Sud, senza vendere l’anima al diavolo; a quello ci ha pensato lui.

Maradona per noi è una grande nostalgia e forse è giusto che chi quell’atmosfera non l’ha vissuta, non lo possa capire e non potrà mai farlo.

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