Questo 10 luglio ricorre il 150esimo anniversario della nascita di Marcel Proust (1871-1922). Autore di importanza capitale per la modernità del primo Novecento, uno dei master della letteratura francese di ogni epoca, Proust avverte fin da giovanissimo una forte vocazione alla scrittura, che riuscirà però a compiere appieno solo diversi anni più tardi. Figlio di famiglia borghese benestante – il padre Adrien era medico e docente universitario, la madre Jeanne Weil discendeva da un’agiata famiglia ebrea alsaziana – il giovane Marcel trascorre l’infanzia e l’adolescenza, minate da un cagionevole stato di salute e dalle crisi d’asma che lo accompagneranno per tutta la vita, tra la casa paterna di Parigi, la residenza estiva a Illiers (oggi Illiers-Combray in suo onore) e la villeggiatura curativa a Trouville, località marittima della Normandia. Luoghi reali che lo scrittore Proust, molti anni dopo, trasfigurerà in luoghi simbolici della memoria, ambienti colmi di ricordi, come paesaggi dell’anima evocati nel suo più celebre romanzo.
Successivamente, negli anni della giovinezza fino al 1907, anno nel quale, confuse tra altri scritti di carattere saggistico, compaiono le prime bozze della Recherche, Proust vive da benestante tra appuntamenti mondani parigini (in piena belle époque), frequentazioni letterarie e nobiliari, collaborazioni giornalistiche varie, tentativi poco convinti di scrittura e periodi di cura in Normandia, dei quali la sua asma necessita periodicamente. Erede, in concorso con il fratello Robert, di una fortuna alla morte dell’amatissima madre (avvenuta nel 1905, il padre era già dipartito nel 1903), Proust, dapprima prostrato dall’evento, sente sempre più avvicinarsi il momento propizio per porre definitivamente mano alla sua vocazione.
Quanto detto per inquadrare temporalmente e fisicamente, se non proprio capire qualcosa che rimase parzialmente oscuro e implicito allo stesso Proust, ossia l’origine e la lunga gestazione della sua monumentale opera, il romanzo, diviso dai diversi editori in sette volumi, alcuni pubblicati postumi, A La Recherche du Temps Perdu (Alla ricerca del tempo perduto, 1913-27). E il tempo perduto cui si accenna nel titolo rappresenta sia la memoria nostalgica ma confortante del tempo passato (celebre l’elogio della memoria involontaria, cui lo scrittore parigino dedica pagine tra le più belle della letteratura occidentale del Novecento), sia il rammarico del tempo sprecato in attività diverse dalla scrittura, giacché il giovane Proust, come già precisato, nutriva ambizioni di scrittore che per lungo tempo trovò difficoltoso realizzare. La struttura della lunga opera è perciò di tipo circolare.
Lo stesso Proust dichiarò in diverse occasioni (disse a Madame Straus nel 1909: “ho appena cominciato – e finito – un intero lungo libro”) di aver scritto il primo capitolo del primo volume (Dalla Parte di Swann, 1913) e il finale dell’ultimo (Il Tempo Ritrovato, 1927) in sequenza e prima di tutto il resto. Infatti i temi portanti del tempo come memoria e l’epifania della memoria involontaria sono simmetricamente presenti nel primo come nell’ultimo volume, mentre nel resto dell’opera è presente soprattutto il più prosaico argomento del tempo “sprecato” in attività che allontanano l’io narrante (nel quale, in controluce, si riconosce lo stesso Proust, almeno per la parte di lui vocata all’arte dello scrivere) dalla verità raggiungibile solo tramite la letteratura.
Tra la pubblicazione della miscellanea Les Plaisirs et les Jours (1896) e l’uscita del primo volume della Recherche trascorrono inerti (salvo qualche traduzione di John Ruskin) circa diciotto anni, nei quali Proust in parte vive la Parigi mondana e in parte progetta la sua grande opera, il suo imperituro riscatto. Questi anni di mezzo, trasfigurati della finzione letteraria, confluiscono nei volumi centrali dell’opera (I Guermantes, 1920, Sodoma e Gomorra, 1921-22), quelli in cui il protagonista io narrante si trova più distante dal compimento del suo agognato destino di verità, nel punto di maggior smarrimento, che parrebbe senza ritorno.
Il volume successivo invece (La Prigioniera, 1923) ripropone il tema già affrontato nel secondo (All’Ombra delle Fanciulle in Fiore, 1919), quello cioè del binomio ispiratore, o dissolutore, tra amore e arte. Binomio vissuto dal giovane Marcel, e poi parafrasato nella narrazione in forma di apprendistato nel Fanciulle, rivisto poi in termini di alternativa escludente nel più maturo La Prigioniera, quando il compiersi della passione per Albertine distoglie, per fortuna non definitivamente, il protagonista dalla sua missione letteraria.
Nel penultimo volume, invece (La Fuggitiva, 1925), il tempo diventa oblio. Gran parte del lavoro di stesura dell’opera impegna Proust durante la Grande Guerra in una Parigi oscura e dantesca, che fatalmente traspare nelle sofferte pagine che corrono dal citato penultimo volume fino all’inizio de Il Tempo Ritrovato (1927). È una sorta di prova finale, attraverso cui il protagonista deve passare per trovare la propria verità. La quale consiste nella constatazione che attraverso il tempo (ritrovato) egli può cristallizzare il caleidoscopio delle esperienze trascorse in una narrazione, che la memoria può diventare materia da romanzo.
E allora, l’opera che alla fine della Recherche l’io narrante alias Marcel si accinge a scrivere è la Recherche stessa, che il lettore ha appena terminato di leggere. Mirabile esempio di metaletteratura, la Recherche di Marcel Proust si caratterizza allora come una pietra miliare della modernità, e immortala il suo autore come uno dei massimi scrittori di ogni epoca. Se non fosse morto a soli 51 anni nel novembre del 1922, causa una polmonite trascurata, la scrittura della Recherche sarebbe continuata fino a chissà quando, infinito intreccio di prosa tra arte e vita, perché mai come in Marcel Proust la vita si confonde con l’opera d’arte (letteraria) e viceversa.
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