A un anno dalla morte di Sergio Marchionne è stato detto tutto o quasi. Sono usciti libri che lo raccontano, chi gli era vicino ha dato la propria interpretazione dell’uomo e degli avvenimenti che lo hanno visto protagonista, di lui hanno parlato amici e nemici, quasi sempre benissimo. Sono emersi sconosciuti aspetti teneri del suo carattere, come quelli che riguardavano il rapporto con la madre che lo rimproverava di averlo visto in tv con i capelli bagnati insieme all’ex presidente americano Barack Obama. O aspetti quasi maniacali della sua personalità, soprattutto per quanto riguarda i sui suoi ritmi di lavoro e il suo rapporto con i collaboratori dell’azienda.
Per noi resterà, comunque e sempre, “il dono di Dio agli azionisti del settore automotive” come lo aveva definito un analista del settore, l’uomo simbolo di un periodo in cui era ancora possibile riuscire a risanare un’azienda automobilistica che era stata a lungo trascurata ed era sull’orlo del fallimento. È stato il personaggio più funambolico degli anni d’oro del settore automotive, durante il quale per avere successo bastava azzeccare un modello, una linea della carrozzeria, gestire bene una fabbrica e cercare di aprire nuovi mercati. Oggi non è più così. Oggi è tutto molto più complicato. E, forse, anche Marchionne sarebbe in difficoltà, come molti dei suoi amici e colleghi che sedevano vicino a lui nelle riunione dell’Acea, l’associazione dei costruttori europei di automobili.
Dalla scomparsa del manager italocanadese sono usciti di scena altri tre mostri sacri del settore: Rupert Stadler, il ceo di Audi da otto anni, Carlos Goshn, al vertice di Renault e Nissan da quasi venti, e Dieter Zetsche, l’uomo con i baffoni, numero uno di Daimler. L’ultimo è andato in pensione dopo 13 anni, ma gli altri due hanno passato mesi in galera (quattro il primo e cinque il secondo) prima di rassegnare le dimissioni e hanno ancora un conto aperto, per motivi diversi, con la giustizia tedesca e giapponese. Il nuovo ceo del Gruppo Volkswagen, Herbert Diess è stato nominato, pochi mesi prima della morte di Marchionne, ad aprile del 2018, mentre quello di Bmw, Harald Krüger, sta lasciando la sua poltrona di Presidente del Consiglio di amministrazione della casa automobilistica bavarese proprio in questi giorni.
Se non temessimo di esagerare potremmo parlare di “Caduta degli dei”, ma sta di fatto che tra i manager al vertice dei grandi costruttori europei sopravvive solo il numero uno di Psa, Carlos Tavares. Tutti gli altri sono out. Quelli che erano gli imperatori del settore sono stati fatti fuori dalla magistratura o accusati di essere i responsabili del calo degli utili che le aziende automotive europee cominciano ad avere sotto gli occhi. Ma il panorama che hanno di fronte i loro sostituti è di quelli che fanno tremare i polsi. Le case automobilistiche devono investire sulle auto elettriche sapendo che solo una piccola parte dei loro clienti è disposta a comprarle, ma bisogna assolutamente venderle per evitare di pagare delle multe miliardarie imposte da una Unione europea cieca e stupida.
Fare auto elettriche ha bisogno di meno manodopera e ci saranno decine di migliaia di licenziamenti. La ricerca sulla guida autonoma drena risorse e ha prospettive per lo meno incerte, ma non si può rischiare di restare indietro. Il car sharing e i servizi di mobilità non hanno mai fatto un euro di guadagno dovunque, ma bisogna investirci perché sono, forse, il futuro. Guai a lasciare i motori a combustione interna perché anche tra vent’anni alimenteranno almeno la metà delle auto vendute nel mondo. Se a queste cose si sommano una possibile hard Brexit che taglierebbe le linee di rifornimento delle fabbriche di automobili inglesi, i possibili dazi americani sulle vetture costruite in Europa e il rallentamento del mercato cinese, il primo al mondo in termine di pezzi venduti all’anno, il lavoro dei nuovi “imperatori” non sarà per niente facile.