Ventidue anni orsono, Marco Biagi stava rientrando da Modena dove insegnava nella Facoltà di economia, quando venne assassinato sotto casa in via Valdonica a due passi dalle Due Torri. La moglie e i figli sentirono il rumore degli spari e capirono ciò che era accaduto. Benché avesse denunciato le minacce che riceveva per il lavoro che stava svolgendo (aveva coordinato la pubblicazione del Libro Bianco per la riforma del mercato del lavoro e contribuito alla stesura della proposta di legge a lui intestata) quella notte Biagi era difeso soltanto dalla sua bicicletta (che poi divenne il simbolo del suo ultimo viaggio su questa terra), perché gli era stata tolta la tutela che gli era stata assegnata anni prima dopo le minacce ricevute per aver lavorato al Progetto Milano Lavoro. E non ci fu verso di indurre le autorità a rivedere quella scellerata revoca, nonostante le numerose segnalazioni allarmate.
Furono mesi drammatici per Marco e per la sua famiglia. Il professore era impegnato a difendere in tante occasioni di dibattito aspro e fazioso quelle idee e proposte che erano raccolte nei testi elaborati. Lo faceva in un contesto di insicurezza personale che lo inquietava, ma non lo distoglieva dal suo impegno.
In una delle tante lettere alle autorità chiamate (inutilmente) a provvedere alla sua sicurezza, Biagi assicurava al ministro del Lavoro, Roberto Maroni, che, nonostante le ricorrenti minacce, non intendeva “desistere dalla mia attività di collaborazione con Lei e con il Ministero”. Dopo l’assassinio di Biagi, emerse in tutta la sua gravità questa ostinazione delle autorità a non voler tutelare “un uomo da bruciare”.
Ricordo con precisione quei giorni. Il 19 marzo di quell’anno cadeva di mercoledì. Il venerdì precedente un autorevole settimanale pubblicò una notizia attribuita ai servizi in cui si affermava che le nuove BR (che anni prima avevano ammazzato Massimo D’Antona) preparavano altre azioni nei confronti non di personalità della politica, ma di esperti collaboratori a cui erano affidati compiti di elaborazione. Era il profilo di Marco Biagi, ma i terroristi anticiparono la riunione che della commissione che avrebbe riesaminato il caso. Quell’ostinazione burocratica risultò tanto più deprecabile quando – nelle indagini – emerse che il commando brigatista non avrebbe agito se ci fosse stato il rischio di un conflitto a fuoco.
Quando fu ucciso, Biagi ed io ci conoscevamo da trent’anni. Col tempo si era consolidata la nostra amicizia; ci frequentavamo con le famiglie, mentre sul piano professionale – per le funzioni e le competenze di ciascuno di noi svolgeva in quegli anni – i rapporti erano intensi, integrati e complementari. Posso dire, dunque, che quella notte, sotto i portici bui di via Valdonica, in quell’intreccio di viuzze con l’acciottolato, tra Piazza S. Martino e l’antico Ghetto, ho certamente perduto un amico. Ma ho trovato un Maestro, una Guida. Non solo perché – da allora – ho iniziato a occuparmi dei problemi del mercato del lavoro proprio per meglio difendere la memoria e la causa di Marco. Ma per aver riscoperto – quando ormai non lo ritenevo più possibile dopo l’eclissi di tutti i miei ideali – una missione nella vita: quella di consentire che le idee di Marco Biagi avessero nel dibattito una legittimità che gli era stata negata dai “terrapiattisti” del diritto del lavoro, legati a un concetto ossificato, ma considerato immutabile, del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e presidiato dall’articolo 18 dello Statuto. Biagi si azzardò a valicare quel confine al di là del quale stava scritto “hic sunt leones”.
Nel breve tempo che gli rimase da vivere, Biagi veniva trattato come anni dopo capitò a Elsa Fornero in materia di pensioni: Il Libro bianco era “limaccioso” e basta. Certo il sacrificio di Biagi ha imposto il silenzio a tanti critici. Anzi, iniziò il tentativo di separare Marco dal suo lavoro, come se fosse stato strumentalizzato dal perfido Governo di centrodestra. Questa tesi si basava su di un dato di fatto: la legge Biagi era stata approvata dopo la sua uccisione e soprattutto i decreti legislativi in applicazione della delega furono varati in tempi successivi con il contributo di Michele Tiraboschi. Ma nel retropensiero di troppi dirigenti politici e sindacali e di operatori del diritto Biagi rimane l’inventore della precarietà, come se la Luna esistesse solo perché qualcuno la indica col dito. Marco era convinto che la flessibilità dei rapporti di lavoro fosse un’esigenza ineludibile e che il compito del giurista fosse quello di definire delle regole a tutela del lavoratore. “Occorre prevedere – era scritto nel Libro Bianco – nuove tipologie contrattuali che abbiano la funzione di ‘ripulire’ il mercato del lavoro dall’improprio utilizzo di alcuni strumenti oggi esistenti, in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, e che, nel contempo, tengano conto delle mutate esigenze produttive ed organizzative”. Portare una regola pertinente dove non c’era per Biagi era il solo modo per tutelare il lavoratore.
In un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 novembre 2001 Marco scriveva: “Se si vuole davvero iniziare una lotta senza quartiere al lavoro irregolare, bisogna disporre di tutti gli strumenti idonei allo scopo: per stanare gli irriducibili del lavoro nero occorrono tutte le armi, anche le più sofisticate. Si riducono le tutele? – si domandava – Forse per gli occupati, ma non per chi cerca lavoro”. Fin dal suo contributo, nel febbraio del 2000, alla stesura del c.d. Patto per Milano, che altro non era se non un tentativo di includere, adibendoli a lavoretti di pubblica utilità gli “ultimi”, i “dannati della terra”, gli immigrati senza occupazione: un modello che negli anni successivi venne imitato in tante altre città. Avendo quell’intesa degli obiettivi essenzialmente inclusivi per i settori emarginati del mercato del lavoro, presupponeva livelli retributivi d’accesso, inferiori ai minimi contrattuali: il che offendeva i “sacri principi”. Fu quella la circostanza in cui maturò la rottura con la Cgil (che non volle aderire all’intesa).
Nei confronti del lavoro del professore le manifestazioni di un normale dissenso di merito, peraltro legittimo e utile, erano contornate da un clima contestuale di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento. Un’accusa che si può sopportare solo se si possiede una grande forza morale, perché la sinistra è implacabile con chi tradisce la regola fondamentale dell’appartenenza. Nei confronti dell’avversario, infatti, la sinistra mantiene un distinguo morale, in conseguenza del quale chi abbandona il campo non è uno che ha semplicemente cambiato opinione, ma è un apostata, una persona che tradisce la vera fede. Chi approda a sinistra è un redento, chi se ne allontana un reprobo.
Il nome di Marco fu trovato in un volantino di un gruppo terrorista. Così venne disposto un provvedimento di tutela che, nelle sue alterne vicende, divenne uno dei problemi degli ultimi anni di vita di Biagi. Cominciò lì l’ultimo miglio della vita di Biagi: trovare forme regolate e regolari per l’inclusione sociale, nella consapevolezza che la pretesa di trasformare chiunque in un lavoro stabile si trasforma, al di là delle intenzioni, in una preclusione, perché per divenire occupati occorre essere prima di tutto occupabili.
Se la flessibilità “normata” costituiva il nucleo centrale del suo pensiero, Biagi aveva delle idee innovative anche per quanto riguardava il contenzioso del lavoro e in particolare la questione allora ossessiva dell’articolo 18 dello Statuto: “D’altra parte – scrisse Marco – il tema della flessibilità in uscita può essere affrontato anche su un altro versante; quello di una incisiva riforma dell’arbitrato in materia di lavoro, senza che ciò significhi svuotare il ruolo della magistratura. All’arbitro dovrebbe essere assegnato soprattutto il potere di decidere in concreto sulla controversia che gli viene sottoposta, tenendo conto di tutte le circostanze del caso (condizioni del mercato del lavoro locale, stato personale e familiare della persona licenziata, gravità dell’inadempimento contestato, ecc.) rispetto all’entità della sanzione da indirizzare al datore di lavoro qualora riscontri la non legittimità di un licenziamento. L’obbligo di reintegrazione ex articolo 18 Stat. Lav. dovrebbe restare solo in caso di licenziamento discriminatorio e quindi viziato da nullità radicale: non essendosi mai risolto il contratto, dovrebbe potersi dedurre il suo pieno ristabilimento. Per il resto l’arbitro dovrebbe potersi muovere come se avesse di fronte sempre una stabilità ‘obbligatoria’ con la possibilità di condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria che ristori adeguatamente il lavoratore dal danno subito”.
Da ben ventidue anni la ricorrenza dell’uccisione viene ricordata con tante iniziative da parte della Scuola da lui fondata, dalla fondazione a lui intestata, dalle istituzione di Bologna, da amici e associazioni locali. Spesso mi chiedo che cosa avrebbe fatto il mio amico in questi 22 anni. E che cosa avremmo fatto invecchiando insieme. Ora Marco sarebbe in pensione a godersi le due nipotine figlie di Francesco, il maggiore dei due figli. Poi sarebbe molto felice dei successi del suo Bologna, la squadra del cuore. Spero che là dove si trova gli sia possibile assistere a quanto accade ai suoi cari e al lavoro dei suoi allievi. La morte è un episodio dell’esistenza. Ci uccide solo l’oblio.
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