Fra le tracce proposte dal Ministero dell’Istruzione per la Prima Prova della Maturità 2024 per la Tipologia B2 (testo Argomentativo) c’è anche il testo tratto da “Rivista AIC” di Maria Agostina Cabiddu: ecco qui sotto la traccia svolta da Michele Massimo Cafagna per conto de IlSussidiario.net

COMPRENSIONE E ANALISI – TRACCIA SVOLTA TIPOLOGIA B2 MATURITÀ 2024

La costituzionalista Maria Agostina Cabiddu, nel suo articolo apparso sulla “Rivista AIC”, parla della bellezza come caratteristica distintiva e primaria dell’Italia, ragione principale del successo riscosso tra i turisti che ogni anno arrivano per ammirarne l’immenso patrimonio storico-culturale, parte integrante del territorio e connaturato allo stile di vita dei suoi abitanti. Un importante riconoscimento di questo incontro fruttuoso tra sviluppo culturale e cittadini deriva proprio dall’articolo 9 della Costituzione, non a caso nel gruppo dei dodici Principi fondamentali, prodotto dell’azione “lungimirante” dei Padri Costituenti, che hanno saputo leggere il futuro partendo dai segni del loro presente e cogliere tutte le questioni che lo avrebbero caratterizzato in materia di tutela del patrimonio.



Dalla “speculazione edilizia”, per citare l’osservatore critico del boom economico che è stato Italo Calvino, alla smaterializzazione della cultura in spazi virtuali, con conseguente e fisiologica rarefazione della stessa, l’articolo 9 si pone come monito e punto di partenza per un atteggiamento diverso, più riconoscente per certi versi, nei confronti dei nostri beni culturali, fisici e immateriali. Una sfida raccolta da una parte considerevole della cittadinanza, favorendo la nascita di numerose associazioni, più o meno riconosciute giuridicamente, che promuovessero interventi concreti a favore della tutela e della rigenerazione del patrimonio artistico, oltre che alla sua rimessa in esercizio come risorsa della comunità.



È indice della “coscienza della funzione civile” di quel patrimonio, tratto fondamentale in un popolo che non vuole perdere le proprie radici e vuole approcciarsi al futuro con coscienza della propria identità, ed è anche sintomo del bisogno di bellezza dei nostri giorni, sia essa il monumentale paesaggio di molte città, o una bellezza minuta, popolare, di tradizioni e legami personali, di testimonianze irripetibili e perle nascoste dal disinteresse e dall’abbandono. Un tipo peculiare di patrimonio, quello delle piccole cose, che più di tutti rifiuta la mercificazione e l’uso effimero dell’“avanti il prossimo”, che richiede di essere trattato non come “bene di lusso”, ma di essere accettato e trasportato con sé ovunque si vada, un ricordo di ciò che si è e una memoria dell’appartenenza, una vera cittadinanza a tutto tondo.



PRODUZIONE – TRACCIA SVOLTA PRIMA PROVA MATURITÀ B2: CABIDDU, LA BELLEZZA E IL PAESAGGIO NELL’INTUIZIONE DEI COSTITUENTI

All’Italia viene spesso associato l’appellativo di “Bel Paese”, quasi a testimoniare l’evidenza di ciò che Cabiddu scrive nel suo articolo: il “radicamento di questo patrimonio nel territorio, nella storia e nella coscienza del suo popolo”, quella specificità che ci rende unici anche agli occhi del mondo e che noi possiamo dimenticare con una facilità disarmante. È per questo che il primo passo da compiere per un’effettiva tutela dei nostri beni artistici è il rendersi conto di vivere in spazi “belli”, pensati, vissuti, che parlano, o almeno provano a farlo, della loro storia, di chi li ha vissuti e delle narrazioni quotidiane e straordinarie che li hanno coinvolti. Negli innumerevoli centri storici che costituiscono il cuore delle nostre città, nelle casette candide incorniciate dal sole mediterraneo, nelle campagne a digradare di verdi alture, nella magnificenza di palazzi che nascondono opere inaspettate, la densità di bellezza che ci circonda è tale da investire chiunque ci presti un minimo di attenzione.

È necessario, perciò, diventare degni di questi doni, diventare la loro anima presente, perché non rimangano muti simulacri di un passato di grandezza ormai andato o di tradizioni sepolte nelle pieghe del tempo, ma si facciano presenza costante della nostra identità: c’è bisogno di incarnarsi in questo patrimonio, di non lasciarlo scappare e di non farlo passare inosservato, di non permettere che ne rimangano briciole lungo la strada del progresso dalla mente chiusa.

I monumenti e le tradizioni immateriali fanno da contraltare alla cultura della velocità utilitaria, del godimento istantaneo, loro che sopravvivono i secoli e le crisi. Ed è questa sindrome della rapidità, della foto dimenticata tra le tante in galleria, della passeggiata nel museo come fosse una via di negozi, che uccide ogni bene, nel senso del “bene” che ci dà e che noi dobbiamo volergli. Il patrimonio non va trasformato in parchi divertimenti da gustare in un giorno, ma deve poter ricreare quelle atmosfere che gli hanno permesso di arrivare fino noi, quelle suggestioni squisitamente peculiari di ogni epoca che in quanto “classici” possono ancora raccontare.

D’altronde, come la letteratura ci parla con la sua potenza incredibile dell’esperienza umana in quanto tale, anche il patrimonio artistico di un popolo, materiale e immateriale, sopravvive come simbolo dei modi di pensare, di agire, di “vivere” e di abitare il mondo dei nostri progenitori, aiuto nelle questioni del presente e faro in quelle future. Di certo più utile di una fila chilometrica a un museo, sarebbe più utile il racconto di pochi turisti estasiati dall’incontro con un nuovo Paese e con una nuova cultura o di un nativo che si è accorto di riconoscersi nelle sue radici. Ed è nostro compito che queste bellezze non siano isolate immagini intoccabili, oasi nel deserto o cartoline prestampate, ma che siano organiche e coerenti con il paesaggio circostante.

Poche epoche hanno sentito il completo distacco con il passato quanto la nostra odierna, vittima di una frattura apparentemente insanabile tra vecchio e nuovo. Lo si vede ad esempio nelle nostre città, divise tra centro storico e periferia “non storica”, come fosse stata privata della sua dimensione temporale, reclusa in un oblio che facilita anche l’oblio di tutto il resto, la scissione del contatto viscerale tra la cittadinanza e i suoi beni. E analizzando la storia, o anche solo vedendo come una cattedrale possa essere stata costruita sulle fondazioni di una basilica romana, eretta in bianca pietra con forme romaniche includendo i resti di un transetto bizantino e decorata internamente con ori barocchi, si può constatare come ciascun’epoca abbia accettato, inglobato, innovato e mai direttamente sconfessato o rotto con la tradizione quanto il nostro amato Novecento.

Diventa così compito nostro, collettivo, non esclusivo degli “esperti”, risanare questa frattura, pericolo insidioso per la nostra memoria (Benevolo, nella sua “Introduzione all’architettura”, mostrava come nella città moderna “nessuno può essere considerato semplice pubblico, essendo ciascuno coinvolto necessariamente nel continuo lavoro di modificazione dell’ambiente urbano e responsabile, per la sua parte, dell’assetto di questo ambiente”). Il ruolo dei cittadini, di chi vive il “Bel Paese”, di chi è stato colpito irrimediabilmente da questo patrimonio, si trasforma così radicalmente nel suo aspetto, nella sua funzione, ma non nella sua ratio di fondo. Non più mistificazione, chiusura della bellezza in una vetrina artificiale, ma continua creazione e rinnovamento, continuo apprendimento dal passato e proiezione di bellezza nel futuro, per noi e coloro che ci seguiranno.

Se gli italiani devono imparare qualcosa dal loro patrimonio, non è certo la conservazione passiva, ma quell’istinto atavico di gridare al mondo la propria presenza tramite la costruzione di nuova bellezza, tramite l’immortalità regalata dalle tradizioni, tramite i legami con la propria terra e l’apertura al mondo. Il modo migliore di tutelare un bene è farlo dialogare con il presente, con nuovi beni, renderlo parte di una fucina e non chiuderlo in un museo, ridare alla cultura quel fermento che tanto dilagava nel periodo del Rinascimento, quando il Paese frammentato dalla politica, macchiato dalle guerre intestine, piegato dall’incertezza, sfolgorava grazie all’arte, all’espressione della propria essenza. Lo diceva anche Platone nel “Simposio”, durante il dialogo tra Socrate e Diotima, che “l’amore non è amore del bello”, ma “della generazione e della procreazione del bello”. L’amore, il rispetto, lo sguardo ammirato e scintillante che abbiamo nei confronti del patrimonio artistico passa anche dalla creazione di nuovo patrimonio, che armonizzi il nostro spazio fisico e intimo e lo renda organico con ciò che ci è stato lasciato. Sia finalmente espressione dello spirito di un popolo che ritrova se stesso e un bene comune davvero condiviso, e lo spirito di un mondo rinnovato e pronto alle sfide future.