La morte di Mariano D’Antonio – economista, saggista, accademico – riporta l’autore di questa rubrica a un tempo lontano e per certi versi felice. Il tempo in cui, smantellata l’impalcatura dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, ci si interrogava sul come si sarebbe potuta sostenere la transizione da un’economia per lo più assistita a una tendenzialmente di mercato.
Erano i primi anni Novanta del secolo scorso e in campo editoriale si affacciava una nuova testata, Il Denaro, che si era data il compito di studiare e accompagnare questo complesso e doloroso processo con il contributo decisivo di un’associazione culturale che prese il nome di Officina di Economia: un po’ centro studi, un po’ luogo di confronto, un po’ strumento di divulgazione.
Mariano, che aveva già maturato molte esperienze legate alla sua professione e all’impegno civile, ne fece parte dal primo momento assieme a Massimo Lo Cicero, Paolo Savona, Lucio Scandizzo (che coinvolse Luigi Paganetto e Michele Bagella), Dominik Salvatore, Sandro Petriccione, Salvatore Vinci, Pasquale Persico, Clelia Mazzoni. Un prestigioso nucleo intorno al quale si sviluppò un’attività intensa.
Non saprei dire come fosse possibile che tutte queste personalità, impegnate nell’insegnamento universitario e nei tanti incarichi pubblici e privati che svolgevano, trovassero il tempo per dedicarsi a Officina e ai temi che poneva. Ma era così. E con maniacale puntualità non mancavamo mai di far sentire la nostra voce, la nostra opinione, sui fatti che riguardassero il nostro Sud.
Benché di estrazione e sensibilità assai diverse tra loro, tutti i partecipanti al progetto – seguito con interesse dall’allora direttore generale del Banco di Napoli Ferdinando Ventriglia e con simpatia dal vicepresidente di Confindustria Enzo Giustino – si muovevano nel segno di un’amicizia e una concordia che non ho più avuto modo di osservare in successive iniziative.
Con Lo Cicero, che fu scelto come Presidente del sodalizio, Mariano era tra i più assidui frequentatori del circolo e un prolifico estensore di articoli che avevano una rara forza divulgativa dovuta alla sua prosa asciutta, capace di andare al dunque e spiegare in maniera semplice concetti che potevano apparire complessi. Si faceva capire e questo era un pregio che tutti gli riconoscevano.
Non era dolce di sale con i suoi conterranei meridionali di cui conosceva pregi e difetti. Si batteva perché il Meridione restasse al centro delle politiche nazionali e non fosse abbandonato a se stesso dopo la precipitosa chiusura della Cassa per il Mezzogiorno – il cui fondamentale contributo allo sviluppo del territorio è stato oggi rivalutato -, ma non sopportava piaggeria e cialtroneria.
Due qualità negative di cui purtroppo il nostro Sud abbondava e abbonda in tutti i ceti sociali determinando le condizioni per una debolezza endemica e tante battaglie perse. Troppo abituati a essere garantiti dallo Stato, imprenditori e lavoratori facevano fatica a imboccare la strada della competizione cercando ancora compromessi e protezioni alla base dei tanti insuccessi.
E, poi, troppa furbizia madre di un opportunismo che impediva di cogliere le opportunità quando invece la comunità avrebbe avuto bisogno di sviluppare competenze e fiducia: a partire dalla politica e dalla gestione della cosa pubblica, certo, ma con ricadute lungo tutto il corpo della società che doveva diventare responsabile del suo destino imparando a scegliere e ad agire per il meglio.
Mariano e tutti gli altri del glorioso gruppo di Officina non erano mossi in questa avventura da motivi di carattere economico o di carriera. A spingerli era la passione civile, la voglia di condividere, il desiderio di portare un contributo a quella che ci sembrava una causa altissima e quindi degna di essere servita con mente e cuore. La gratitudine per questi compagni di viaggio è immensa.
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