«Il mio Mario come Regeni e Patrick Zaki»: ne è convinta Anna Motta, la madre di Mario Paciolla, il cooperante italiano morto in circostanze ancora tutte da chiarire nel suo alloggio a San Vicente del Caguan in Colombia il 15 luglio 2020. La tesi principale delle autorità locali è di suicidio, ma per la famiglia Paciolla – e per la federazione nazionale della stampa italiana che oggi a Napoli ha promosso una manifestazione pubblica per chiedere la verità sul caso di Mario – le prove non ci sono.



«C’è un filo che collega le vicende di Patrick Zaki e Giulio Regeni con quella del nostro Mario», racconta la donna a “Il Mattino”, «ed è il cuore solidale di questi giovani animati da grandi ideali, che girano il mondo portando pace e diritti. È la nostra migliore gioventù, un capitale umano che dovremmo imparare a valorizzare prima che avvengano le tragedie», ribadisce la signora Paciolla. L’inchiesta sulla morte del giovane cooperante Onu in Colombia è ancora aperta – anzi, ce ne sono ben tre (una in Sud America, l’altra in Italia, la terza interna alle Nazioni Unite) – ma l’ipotesi del suicidio viene rigettata dalla famiglia: «non ci abbiamo mai creduto. Non solo perché mio figlio non aveva alcun motivo per un gesto simile», rimarca ancora la signora Anna Motta, «ma sopratutto per quelle che sono state le nostre ultime conversazioni».



LA RICHIESTA DELLA FAMIGLIA PACIOLLA

Negli ultimi giorni tutti i preparativi per l’imminente ritorno di Mario in Italia, le chiamate con la madre e niente che potesse dire di qualche violenta crisi depressiva o qualcos’altro del genere: «la verità è nei suoi ultimi 5 giorni in Colombia», ribadisce la madre del cooperante italiano morto un anno fa, «ha avuto giorni di grande preoccupazione per il suo lavoro. Era in apprensione per alcuni report e in quei giorni sicuramente è accaduto qualcosa che poi ha determinato la tragedia. Lì bisogna fare chiarezza e cercare la verità», sottolinea ancora la donna dalle colonne del “Mattino”. Ristabilire la verità è fondamentale per Anna Motta e per il marito Giuseppe, serve soprattutto per ridare dignità all’amato Mario in quanto è stato infangato con l’ipotesi del suicidio dovuto magari a qualcosa da lui nascosto sul suo lavoro: «non lo possiamo consentire. Lui aveva una eccezionale rettitudine morale, e non era uno sprovveduto. Dobbiamo restituire dignità e onore a nostro figlio e lo possiamo fare solo con la verità vera». Alla politica ma soprattutto all’Onu la madre di Mario chiede verità e trasparenza: «mio figlio è un morto sul lavoro», chiosa polemica la signora Motta, «se una muratore muore su un cantiere si deve chiedere conto all’impresa dove lavorava. Che cosa ha fatto l’Onu per tutelare mio figlio? Come lo ha protetto? Queste sono le domande a cui cerchiamo risposta».