L’informativa dei carabinieri descrive Mario Vanacore come il sospettato numero uno per l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Ma l’uomo, oggi 64enne titolare di una ditta a Torino, si difende, anche se per l’inchiesta è stata chiesta l’archiviazione. «L’unica volta che ho visto Simonetta Cesaroni era morta», dichiara nell’intervista rilasciata alla Stampa. Per il figlio del portiere dello stabile dove lavorava la ragazza uccisa a coltellate nel 1990, la sua famiglia è finita nel mirino di alcuni «personaggi. Magari qualcuno che abbiamo anche querelato». In primavera aveva presentato un esposto con l’aiuto del suo legale, l’avvocato Claudio Strata, per calunnia e diffamazione. «Ero stanco di essere indicato come responsabile del delitto di via Poma». Accuse e insinuazioni per le quali è sconcertato: «La mia posizione era stata esclusa anni fa».



Mario Vanacore racconta che a Roma c’era finito per combinazione quel 7 agosto 1990 ed era presente quando è stata trovata Simonetta Cesaroni. «Con mia moglie e mia figlia, che all’epoca aveva due anni, abbiamo viaggiato di notte perché non avevamo l’aria condizionata. Siamo arrivati alle 9 del mattino. E sono andato in giro con mio padre. Era molto orgoglioso del suo lavoro da portiere. Rispettato e amato da tutti i condomini». Il padre gli aveva fatto vedere un carretto verniciato di marrone. «La polizia aveva detto che erano macchie di sangue, in realtà erano di vernice. Molto evidenti. Quello sì». Il padre lo usava per spostare le piante del condominio da annaffiare. Quando Simonetta Cesaroni è stata uccisa, lui era con il padre e la matrigna: «Abbiamo pranzato e siamo andati a dormire. Ci siamo alzati verso le 17. Siamo andati in farmacia, dal tabaccaio, in altri luoghi». Le ricerche della ragazza sono cominciate quando «alcuni personaggi» hanno bussato alla loro porta chiedendo di andare a cercare la ragazza in ufficio.



OMICIDIO SIMONETTA CESARONI, I RICORDI DI MARIO VANACORE

Secondo le accuse, la famiglia Vanacore avrebbe perso tempo per sviare le indagini. «La mia matrigna ha avuto un po’ di titubanza, non si fidava. Non riconosceva nessuno», racconta Mario Vanacore alla Stampa. Il figlio del portiere conferma che era presente quando è stato ritrovato il cadavere di Simonetta Cesaroni: «Sì. Abbiamo bloccato sua sorella perché non lo vedesse. Io e il suo fidanzato siamo entrati nella stanza, ci siamo chiusi dentro e abbiamo chiamato i soccorsi». Una scena che non riesce a dimenticare, anche se la luce era debole e non ha visto molto sangue. «Solo un alone intorno ai capelli. Quell’odore lo ricorderò per tutta la vita».



L’uomo ribadisce che non conosceva la ragazza e quegli uffici, inoltre nega che era andato lì per effettuare delle telefonate “a scrocco”. «È assurdo. Com’è assurdo il fatto che vogliano chiudere questa storia in questo modo. Forse è stato Mario Vanacore, ma non abbiamo le prove». Il delitto di via Poma è stato efferato, ma Mario Vanacore dichiara di non esserne responsabile. Non sa chi è l’assassino, ma ammette di aver creduto all’ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti. Ma su questo non si sbilancia. «Non voglio essere frainteso». Invece, non crede all’ipotesi del serial killer.

IL SUICIDIO DEL PADRE E IL GIALLO DELL’AGENDINA

Il primo sospettato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni è stato Pietro Vanacore, che ha trascorso 26 giorni in carcere. «La nostra vita è segnata. Viviamo con questa spada di Damocle sulla testa. Il 9 marzo 2010 mio padre si è suicidato. La mia matrigna è sola e non sta bene», dichiara il figlio Mario alla Stampa. Se ripensa al biglietto d’addio “20 anni di sofferenze e sospetti ti portano al suicidio”, si sente di commentare così: «Quelle parole hanno un suono amaro. Stiamo rivivendo quei momenti». L’uomo racconta che il padre si sentiva in colpa per averlo coinvolto in questa vicenda, ma non ne parlavano mai. «Aveva paura di qualsiasi cosa, di tutto e di tutti. Non si fidava di nessuno. E aveva ragione. Sa quando finirà questa storia? Quando troveranno l’assassino. Vorrei che pagasse per quello che ha fatto. Anche indirettamente. Ha coinvolto due famiglie».

Mario Vanacore racconta di non aver mai parlato con la famiglia di Simonetta Cesaroni: «Avrei voluto farlo. Ma ho sempre avuto l’impressione che ce l’avessero con noi». Inoltre, non ritiene che sia questo il momento buono: «Però vorrei esprimere loro la mia vicinanza. Nemmeno loro hanno giustizia». Infine, riguardo l’agenza telefonica, che risulterebbe tra gli oggetti ritrovati in quell’ufficio, Mario Vanacore precisa che era del padre: «Fu ritrovata, dicono, dal papà di Simonetta fra gli effetti personali della figlia e restituita in questura. Stranamente di quella agenda non c’è traccia fra i reperti. Scomparsa».