Vermicino, ancora. Lo stesso buio, la stessa solitudine, l’identica paura, ancora. In Marocco ieri come in Italia più di quarant’anni fa. Perché esiste una Vermicino anche laggiù e anche se ha un nome per noi impronunciabile: Chefchaouen. Un pozzo stretto e profondo più della voglia di bene della famiglia di Ryan, dei suoi amici, di un intero popolo che avrebbe dato il sangue per tirarlo fuori dall’abisso. Un bocciolo di vita spaventato e tenero, fragile e minuto che non aveva resistito al desiderio d’avventura. E come avrebbe potuto, se era fatto proprio per quello, se la sua carne, il suo sangue, il suo cuore, la sua mente sono venuti al mondo proprio per scoprire com’è fatta la realtà e cosa si nasconde dietro una roccia, in cima ad un albero, in fondo ad un pozzo, così da saziare il proprio desiderio di infinito e mettersi alla prova?
Eppure, per quattro lunghissimi giorni non siamo riusciti a credere che la luna potesse tornare in fondo al pozzo e che il destino ci costringesse un giorno, tanto tempo dopo quella prima volta, ad essere testimoni nelle identiche modalità di una tragedia che abbiamo avvertito di nuovo così assurda, così disumana e lontana dalla nostra capacità di coglierne il senso.
Allora come oggi, un popolo intero (ieri il Papa lo ha ricordato all’Angelus ringraziandolo per la sua “testimonianza di bene”) è sprofondato al centro della terra in un dolore che di colpo ha annullato distanze umane, sociali, culturali. Niente come la sofferenza affratella gli uomini. Si dirà: “e la preghiera, la fede, Dio?”.
Cristiani e musulmani siamo messi alla prova da un dolore così totale e così simile a tanti altri: Alyan, il bambino raccolto cinque anni fa esanime dopo un naufragio di migranti su una spiaggia della Turchia, i piccoli che oggi muoiono di freddo e di fame mentre tentano di attraversare il confine bielorusso, i figli strappati alle madri nei campi di concentramento nazisti, quelli condannati dai colpi di spada di Erode… Morti diverse eppure uguali. Morti innocenti. Quale Dio può permettere una morte tanto atroce? Strappa la carne, gela il sangue, blocca il respiro. Come in Gemeria, come sulla Croce: “O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus”. Alfredino aveva 6 anni in quel giugno 1981 che non possiamo più dimenticare. Oggi ne avrebbe quasi cinquanta, forse una famiglia, un lavoro, dei figli. In futuro qualcuno dirà la stessa cosa anche di Ryan, perduto a trenta metri di profondità in un pozzo sui monti del suo Paese.
Difficile credere, difficile continuare a vivere. La fede messa alla prova, senza se e senza ma, perché Ryan è diventato per sempre come Alfredino, figlio nostro, figlio di tutti. Immaginiamo – nemmeno: ci sforziamo soltanto d’immaginare, ché certo dolore non si può descrivere, ma solamente provare – i volti stravolti di mamma e papà come quelli di allora, dei genitori di Alfredino. Vivranno da oggi solo per riabbracciare Ryan e chiedergli senza l’ombra di un rimprovero, col tono dolce di chi è innamorato: “Figlio mio, figlio nostro adorato, com’è potuto accadere?”.
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