“Dio ha creato molte cose a partire dall’oppressione. Ha dotato le sue creature della capacità di creare e da questa capacità sono scaturiti i dolci canti di dolore e di gioia che hanno permesso all’uomo di affrontare il suo ambiente. (…) Il jazz parla per la vita. Il blues racconta la storia delle difficoltà della vita (…) Gran parte del potere del nostro Freedom Movement deriva da questa musica. Ci ha rafforzato con i suoi ritmi dolci quando il coraggio cominciava a venire meno. (…) Tutti hanno il blues. Tutti hanno bisogno d’amare ed essere amati. Tutti hanno bisogno di battere le mani ed essere felici. Tutti desiderano la fede”. Parole scritte da Martin Luther King nel messaggio ai partecipanti al Berlin Jazz Festival.
Era il 1964 e il leader dei diritti civili degli afroamericani visita la Berlino da pochi anni ferita dal Muro costruito dal regime comunista sovietico dividendo tragicamente famiglie e oltraggiando il tessuto sociale. Durante quella visita, in modo avventuroso, varcò quel confine di mattoni e filo spinato e riuscì a pronunciare un sermone in una affollatissima chiesa protestante, invitando i cittadini presenti ad affidarsi e credere che “l’amore cristiano supererà tutte la barriere costruite dall’uomo”.
Proprio in quell’anno King viene insignito del Nobel per la Pace in nome della sua lotta politica contro la discriminazione della popolazione nera in America.
Ma quel messaggio di sessant’anni fa, del quale abbiamo letto le parole più importanti svelava come il jazz e il blues impastati tra la storia del popolo africano schiavo in terra americana e l’anelito di libertà, anche attraverso la fede cristiana, veniva ancora ostacolato nel novecento moderno. E le testimonianze musicali di Thelonious Monk, Louis Armstrong, Charles Mingus, John Coltrane, Nina Simone e tanti altri artisti erano lì a confermarlo. Infatti: “Tutti amano il blues. Tutti hanno bisogno di essere amati”.
E, nel 1984, risuonarono queste parole, esattamente vent’anni dopo, quando un gruppo punk rock di giovani musicisti irlandesi, già da qualche anno alla ribalta nel panorama musicale, diedero alle stampe tra settembre e ottobre il brano e relativo album che li lanceranno definitivamente nell’olimpo dei fenomeni del nuovo rock: gli U2, capitanati dalla carismatica voce del frontman Bono Vox (al secolo Paul David Hewson) invadono le radio con le note di Pride (In the name of love) la canzone traino dell’album “The unforgettable fire”: ancora oggi un inno da cantare a squarciagola tra i fan nei concerti degli U2. Un classico, non solo del quartetto irlandese, ma di tutto il repertorio rock del 900: “Venivamo dall’Irlanda, sapevamo cos’erano le bombe e gli omicidi. Mi sentivo vicino alla filosofia di King. Lui non era un pacifista passivo, bensì militante. Combatteva in prima linea e il suo modo di intendere la religione era legato alla giustizia sociale (…). Le sue parole hanno cambiato il modo di vedere le cose e mi chiedevo: cosa sarebbe successo se un uomo come King fosse vissuto a Belfast negli anni ’80? Cosa sarebbe oggi l’Irlanda?”.
È ancora Bono che paragona il desiderio alla coabitazione sociale della gente afroamericana impersonata da King con il dramma religioso e politico che ha attraversato le vicende irlandesi: “Gli irlandesi – come i neri – si sentono degli estranei, ma suppongo che questa sia la vera essenza dell’arte: la ricerca di una identità”. Per gli esordienti U2 questo era già chiaro: è loro l’altro inno rock precedente a Pride, quella Sunday Bloody Sunday, in memoria di una battaglia tra esercito inglese e pacifisti indipendentisti sfociata per le vie della cittadina di Derry in Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972. Insieme al diciassettenne Gerald Donaghy, altre tredici persone vennero falciate e rimasero sul terreno.
Per gli U2, metà cattolici e metà protestanti, questa tragedia non è occasione (una delle tante nella guerra civile infinita nel Nord Irlanda) per appoggiare la svolta terroristica dell’IRA, ma forti dell’ispirazione del dettato evangelico cantano la storia bagnata dal sangue fratricida nel ritmo elettrico del rock e della misericordia intrisa di pietà cristiana affrancata e non strumentalizzata dalla violenza del potere delle armi.
Ed ecco, quindi, l’incontro ideale tra Bono e Martin Luther King: rock, jazz, blues nell’abbraccio “in the name of love”, nel nome dell’amore.
“Un uomo venuto in nome dell’amore
Un uomo venuto per rendere giustizia
Un uomo per la rivoluzione
Nel nome dell’amore
Cos’altro? Nel nome dell’amore”
Nello stesso album, Bono e i suoi compagni di viaggio, non lasciano ma raddoppiano: concludono il loro lavoro discografico con un’altra canzone su Martin Luther King. Il titolo sono praticamente le sue iniziali, MLK. Al contrario dell’esplosivo Pride dal ritornello “slogan” costruito sulla voce potente di Bono sostenuta dalla macchina ritmica composta dalla chitarra di David “The Edge” Evans, dalla batteria di Larry Mullen jr e dal basso di Adam Clayton, MLK è un gospel intimo, solo voce e un soffuso tappeto sonoro realizzato dall’ingegnere del suono e produttore Daniel Lanois.
Parla Bono: “Le parole di Dylan mi avevano fatto scattare qualcosa. Ricordavo che nelle Scritture si parla della voce del sangue che grida dalla terra e con il canto di MLK volevo riuscire a trasmettere questo: la voce del sangue che grida. Non grida vendetta, però, ma comprensione”.
“Dormi, dormi stanotte
E che i tuoi sogni si possano avverare
Se la nuvola del tuono darà pioggia
Lascia che sia pioggia, lascia che cada su di lui
E così sia (…)”
È un verso della canzone che nella poetica di Bono richiama al libro della Genesi: il dialogo tra Dio e Caino dopo l’uccisione di Abele, immaginando la richiesta di pietà e comprensione da parte del sangue del Reverendo dall’Aldilà alla Terra.
Sono passati quarant’anni esatti dalla pubblicazione di Pride, gli U2 di Bono sono ancora sugli scudi. Nonostante siano miliardari tra incassi di tournée e dischi, non hanno perso l’afflato della denuncia sui diritti civili inapplicati e sulle guerre sparse in questo pianeta martoriato: dall’impegno negli anni ’90 per la riduzione del debito nei paesi in via di sviluppo, alla lotta contro la fame e la povertà e più recentemente con la solidarietà all’Ucraina invasa (chi non ricorda il concerto di Bono e The Edge nella metropolitana di Kiev?) fino alla loro voce alzatasi contro il progrom di Hamas il 7 ottobre 2023.
Certo, non si parla di un procedimento di santificazione in atto per la band irlandese, ma è sempre positivo, che ognuno nel suo ruolo, in questo caso in quello di rock star globali ci si metta la propria faccia e la propria musica per richiamare la sterminata platea di fan nell’attenzione alle grandi questioni che toccano direttamente la vita quotidiana in altalena perenne tra pace e guerra.
P:S.: Questo articolo è stato ispirato dalla lettura del piccolo saggio “Con il jazz contro il muro” di Marco Bardazzi, pubblicato da “Il Foglio” del 16 Marzo 2024.
Per quanto riguarda notizie e dichiarazioni degli U2, ci si è avvalsi della lettura di “U2 The name of love. Testi commentati” a cura di Andrea Morandi, Arcana Edizioni, 2009 e “Bono. La voce degli U2 tra musica, impegno e spiritualità” a cura di Loris Cantarelli, Hoepli Editore, 2020.
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