L’Amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, all’inizio della settimana ha dichiarato, riguardo a possibili cessioni di marchi, che “non ci sono tabù”: “se non riescono a monetizzare il valore che rappresentano arriveranno decisioni”.

Il contesto di queste dichiarazioni è quello di un titolo che negli ultimi cinque giorni ha perso il 15% dopo risultati poco brillanti; Stellantis non è sola perché altri costruttori auto, tra cui per esempio Ford, negli ultimi giorni hanno comunicato risultati sotto le attese. Dopo due anni di risultati eccezionalmente positivi il settore deve affrontare una domanda in calo, soprattutto sul segmento elettrico, e maggiore competizione.



Maserati è sicuramente uno dei brand più deboli del gruppo. Nei primi sei mesi dell’anno il numero di Maserati vendute è calato di più del 50%. Una performance di questo tipo, oltre a riflettere un contesto di mercato complicato, è segnaletica di problemi strutturali. Il piano di rilancio di Maserati, vecchio ormai di tre anni, non ha portato i risultati sperati e sui modelli partoriti c’è grande scetticismo; se c’è un brand che “non monetizza il valore che rappresenta” questo è certamente il caso del marchio italiano.



Più il mercato rallenta, più diventa finanziariamente oneroso supportare i marchi con investimenti in nuovi modelli. Per quelli che hanno bisogno di un rilancio e di un piano di investimenti che porta risultati solo nel medio lungo periodo la questione è ancora più complicata. In un’ottica di gruppo, come nel caso di Stellantis, una fase di rallentamento obbliga a concentrare gli investimenti sui brand più forti che sono in grado di sostenere i risultati nel breve termine e questo peggiora ulteriormente le prospettive dei brand più deboli. In questo caso vendere “dopo” non è una buona idea.



L’Italia ha un enorme problema sul suo settore auto. Stellantis non è un gruppo “italiano” e l’Europa rimane alle prese con un eccesso di capacità; tutto il settore auto europeo vive poi l’incertezza di una transizione all’elettrico imposta dall’Ue che oggi appare un salto nel buio. L’industria auto europea è indietro di almeno dieci anni rispetto ai concorrenti, non ha presa sui materiali necessari all’auto elettrica e in questi mesi scopre che i consumatori continuano a preferire le auto tradizionali. L’Italia non offre molto in questo momento a un’azienda industriale; il prezzo dell’elettricità, per esempio, è il più alto in Europa. L’alto di gamma potrebbe essere un’eccezione perché margini più alti consentono di assorbire, eventualmente, anche costi dell’energia fuori mercato.

Per l’Italia la cessione di Maserati, alle giuste condizioni, potrebbe essere un’occasione. Quello che conta non è la nazionalità o la bandiera dell’azionista, ma quanti e quali sono gli investimenti che vengono messi a terra nel Paese. Trump, che da settimane tuona contro la Cina e contro il deficit commerciale americano, ha ribadito la propria apertura perfino ai costruttori d’auto cinesi purché costruiscano negli Stati Uniti. L’Italia non dovrebbe avere preclusioni tanto più di fronte alla crisi del comparto auto.

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