Una scena da girone infernale dantesco: migliaia di persone che si avvicinano a 30 camion di aiuti, di cibo destinato agli sfollati di Gaza. Poi la calca e i soldati che sparano: in pochi secondi un arrivo che doveva alimentare speranze di vita è diventato occasione di morte. La versione palestinese, non solo di Hamas ma anche dell’ANP, avvalorata dai media arabi, Al Jazeera in testa, è che la responsabilità è tutta dell’esercito israeliano, secondo il quale invece i soldati hanno sparato solo su alcune persone che si accalcavano intorno ai convogli umanitari.
Il resto della gente sarebbe morto calpestato nella ressa. L’IDF avrebbe puntato i fucili su un gruppo che si sarebbe avvicinato ai militari senza ascoltare gli avvertimenti a restare lontani. Qualunque sia la versione esatta degli avvenimenti di al-Rashid Street, a sud di Gaza City, resta di fatto una tragedia immane, nella quale sono morte oltre 100 persone (112 in tarda serata, mail conto è ancora provvisorio) mentre 600 sono rimaste ferite, con un bilancio che si è aggravato di ora in ora.
Una tragedia dovuta alla fame che attanaglia le persone rimaste nella Striscia, dove gli alimenti che arrivano sono troppo pochi e ormai da qualche settimana si muore, anche letteralmente, di fame. “Una vicenda orribile – dice Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa -. La gente a Gaza muore di fame, quando si sparge la voce che arriva qualche aiuto, qualcosa da mangiare, si muovono in migliaia. Da tempo diciamo che bisogna cessare il fuoco. Ormai siamo arrivati a oltre 30mila morti e 70mila feriti, in tutto sono più di 100mila persone in 146 giorni. Non so cosa vogliono di più”.
Tra l’altro la cifra resa nota dal ministero della Sanità di Gaza, ma confermata nella sostanza anche da altre fonti non di parte palestinese, non tiene conto delle persone che sono morte per mancanza di cibo. Perché ormai bisogna contare anche queste. “Anche tanti bambini sono morti di fame – continua Faltas -. Sento la gente che è disperata, non chiedono altro che di avere almeno un panino. Muoiono anche di sete, si riducono a bere acqua che non è pulita, quella che trovano in giro, anche nelle pozzanghere. La gente non ha niente e quello che entra non è assolutamente sufficiente: stiamo parlando di due milioni di persone e da quasi cinque mesi non fanno passare praticamente nulla. Anche quel poco che c’è costa moltissimo”.
Insomma, una situazione gravissima, resa se possibile ancora peggiore dal massacro, tanto da mettere in dubbio anche il possibile accordo per una tregua e la liberazione degli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi. Lo stesso presidente Biden ha ammesso che si tratta di un duro colpo alla trattativa. Sembrava che un’intesa potesse essere annunciata entro domenica, ora torna tutto in alto mare. “Da Gaza non si riesce neanche a fare uscire le persone -conclude il vicario della Custodia di Terra Santa -. Ci sono bombardamenti dappertutto. Non c’è un posto sicuro. Non riusciamo più neanche a far uscire i bambini che potrebbero venire in Italia per farsi curare. Finora abbiamo fatto arrivare 111 persone tra piccoli e accompagnatori, ma adesso è tutto bloccato”.
“Ci sono molti nostri operatori sanitari che vivevano e lavoravano a Gaza che sono stati sfollati anche loro e continuano a prestare il loro aiuto per quello che possono – racconta Fabrizio Cavalletti, dell’Ufficio Medio oriente e Africa della Caritas -. Questo succede nelle due comunità che si sono create intorno alle chiese di Gaza, quella ortodossa e quella latina, ma anche nel Sud, nella zona di Rafah, dove si è concentrata la maggior parte degli sfollati”. Il problema vero, però, resta quello di mangiare: gli aiuti sono centellinati, si cerca di ottenere quello che si può. Carl Skau, vicedirettore esecutivo del World Food Programme, ha riferito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ci sono 500mila persone a rischio di carestia. Al Jazeera riporta che negli ospedali sono morti dei bambini come conseguenza della malnutrizione. “Non abbiamo riscontri di questo tipo – spiega Cavalletti -. Certo la malnutrizione indebolisce il sistema immunitario e le condizioni igienico sanitarie fanno il resto. I rischi di morte aumentano. Resta il problema dei rifornimenti. I camion entrano a Rafah, ma con il contagocce: è così dall’inizio. Ed essendo pochi, succede spesso che la gente li prenda d’assalto: ci sono lunghe file e situazioni di caos per la distribuzione. È una situazione abbastanza frequente. Si è creato anche un mercato nero: chi ha denaro, perché si tratta di prodotti che costano molto, può comprare”. Non è questo il cuore del problema, ma capita che qualcuno di coloro che assalta i camion poi rivenda gli aiuti maggiorati facendoci la cresta. In un contesto di anarchia e disperazione c’è anche chi ne approfitta per questo.
Comunque la gente muore di fame perché arriva troppo poco. “Noi riusciamo ancora a mandare del danaro alle persone che seguiamo attraverso il sistema bancario – prosegue Cavalletti -, anche se poi rimane la difficoltà a spenderli, e ci sono prezzi altissimi. La nostra sede di Gerusalemme, insieme alla Caritas americana e a quella della Giordania, come le altre associazioni umanitarie, riesce a inviare dei beni tramite le Nazioni Unite dal canale di Rafah. Magari però hanno dieci camion pronti e ne entra uno”.
(Paolo Rossetti)
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