Ci sono ottime ragioni per ascoltare Buio in Sala, l’ultimo album di Massimiliano Cignitti (Dodicilune Records). Non tutte legate direttamente alla musica pur di pasta fine, la cui fruizione e godibilità, per sua propria natura, non può transustanziare in fatti lessicali.

Se raccontare suoni, perciò, è una contraddizione in termini quasi sempre ignorata (come se a contrario si chiedesse di suonare un romanzo), è giusto raccontare tanto l’operazione culturale dell’album quanto il contesto d’attualità nel quale si trova ad uscire.



Nel 1950 Dino Risi confezionò un poco conosciuto cortometraggio con lo stesso nome di questo cd, dando l’abbrivio al gioco di citazioni e rimandi di cui si dirà. Nella pellicola, il protagonista entra in una sala cinematografica e si gusta un western, mentre in platea c’è chi si bacia, chi mima le scene, chi s’affaccenda a cambiare le pizze sul proiettore. Poi, a fine spettacolo, esce tra le macerie lasciate dalla Seconda Guerra. S’evoca, insomma, tutta la magia della distrazione, dell’illusione, dello straniamento dalla realtà cui l’arte sempre dovrebbe tendere. Nel 2022, quando esce il lavoro del bassista e compositore romano, si farebbe fatica a trovare sale cinematografiche storiche ancora aperte, devastate dagli effetti del lockdown, e uscendo ci si ritroverebbe tra distanziamenti e incognite di una guerra prossima per confini, più vicina di quanto non si vorrebbe credere. Insomma, non s’avrebbe neanche la speranza di ricostruire un nuovo mondo possibile, in anni intrisi assai più di incertezze che di moli per ormeggiare.



Resta, il buio in sala, una specie d’ologramma, l’ennesimo paradiso perduto destinato ad ingolfare di malinconia la memoria d’un tempo sperato e mai realizzato. Nella valigia dei ricordi sopravvive quello strano sentimento di eccitazione e di aspettativa per quello schermo tanto grande da ignorarne il perimetro e gli occhi rivolti a storie diverse, nelle quale perdersi, fingersi o immedesimarsi. Ed è esattamente dentro questa dimensione trasognante che si collocano i dodici brani di questo lavoro discografico.

Se si volesse trovare un illustre precedente all’idea di Cignitti, occorrerebbe risalire al 2010 quando uscì Silent Movies di Marc Ribot. In questo gioiellino, il chitarrista di Newark raccontava la musica mai composta per frammenti o film muti esistenti o immaginati, creando un viaggio tutto retrò dentro avanguardie cinematografiche che si facevano – a quasi cent’anni di distanza – avanguardie musicali. Buio in Sala lancia, in qualche modo, la stessa sfida: raccontare gli echi dei grandi maestri della settima arte (Nino Rota, Elio Petri, Win Wenders, Michelangelo Antonioni, Fernando Solanas, Glauber Rocha, Jean Luco Godard, solo per dirne qualcuno) scrivendo musica “immaginata come colonna sonora ipotetica”, scrive l’autore e arrangiatore dei brani: un tributo alle figure miliari della propria storia cinematografica ed identità culturale.



Ora, la buona notizia, per chi ama l’una e l’altra espressione artistica, è che Cignitti riesce molto bene nell’intenzione di portare l’ascoltatore dentro suoni nuovi, ma costantemente evocativi di momenti vissuti pur non iscrivibili a calendario, una specie di invito al deja vu, come condizione propizia al viaggio dentro a suoni possibili creatori di immagini (e viceversa). A partire dall’attacco di O Venezia Venusia Venaga che funge coi suoi cluster da induttore ipnotico, l’invito a rilasciare i muscoli e farsi portare dentro un viaggio.

Merito del risultato, certamente, è dato anche dalla qualità dei musicisti coinvolti e che, se il recensore obbedisse alle regole del bon ton mediatico, avrebbe dovuto metter in cima al racconto. Al solidissimo quintetto di Cignitti, si unisce il suono di giganti come il vietnamita Nguyên Lê, tra i migliori chitarristi jazz fusion circolanti, l’armonicista Gregoire Maret o l’arpista Edmar Castaneda. Gente che ha suonato con ogni nome maiuscolo del jazz contemporaneo e che porta, in questo Buio in sala, un contributo determinante, ma non esclusivo. La forza dei brani, infatti, risiede in massima parte nella bella scrittura dei pezzi, come anche nelle idee melodiche e – soprattutto – degli arrangiamenti, sempre sapidi di soluzioni originali.

E a proposito di musica e cinema, come spesso avviene, in cauda venenum. Se ascoltando l’album di Cignitti non ci si può che rallegrare per l’idea originale, che tesse in un racconto originale la doppia trama tra arti sorelle, su latitudini inverse non ci si può che dispiacere per le tante (troppe) iniziative ruffiane circolanti di segno contrario. Sì, i famosi “tributi”, così cool, così miseri. Molto più buio in testa che in sala, come dimostra la sempre più lunga confraternita oblata di San Ennio Morricone: un soporifero rosario con tanti grani che per contarli ci vorrebbe una Carrà coi suoi barattoli di fagioli.