In pista da un quarto di secolo con all’attivo 18 dischi tra inediti, cover e live, Massimo Priviero (classe 1962) è il rock all’ennesima purezza, scevro da ogni compromesso di marketing e fuori da ogni moda passeggera, fin da quando, sotto la produzione di Steve Van Zandt (il Little Steven della storica E- Street Band) registrò un disco con l’appellativo di Bruce Springsteen “italiano”.
Marchio impegnativo che poteva aprirgli tutte le porte delle hit parade e delle tivù, ma che non bastò a limitare la sua testardaggine, ostinandosi durante la sua carriera a rifiutare infingimenti e trasformismi tali da sconfessare il suo essere principalmente cantore di territorio, di tradizione e di popolo, vedendosi così chiudere l’opportunità di essere considerato artista mainstream (vocabolo abusato, ma perfetta sintesi nel bene e nel male per descrivere una popolarità diffusa sui media di tendenza), ma che negli anni gli ha permesso di coltivare una schiera di fan fedeli ed entusiasti che lo seguono negli appuntamenti live, dai quali sprigiona tutta la sua carica rock.
Nato a Jesolo, di fronte all’Adriatico, trasferitosi giovanissimo in terra padana nell’hinterland milanese, Priviero è il più genuino rappresentante italiano di quel rock americano che dagli anni ’70 ha visto ergersi come gran protagonista Bruce Springsteen con il suo suono potente e profondamente immerso nel tessuto sociale di quelle terre e di quella società.
Infatti, proprio come il rocker del New Jersey, Priviero non ha mai smesso di raccontare storie di popolo tra rapporti interpersonali e generazionali, le epopee di guerre passate e presenti, con un forte impegno civile, non segnato dall’ideologia di partiti, ma dando supporto con la sua musica al mondo del volontariato in ogni campo assistenziale, grazie anche nella fede ad un cristianesimo dal respiro popolare, quello tramandato dalle persone semplici e concrete che non si perdono negli slogan ma affrontano la vita in tutta la sua complessità.
E così che il suo songbook si è arricchito in questi decenni di carriera di canzoni memorabili, urlate a squarciagola con le chitarre lanciate al gran ritmo rock, ma anche capace di evocare le atmosfere “dylaniane” semplicemente con armonica e plettro acustico.
Il Priviero, attento narratore della realtà quotidiana a partire da quella contadina, rurale, quella della provincia veneta vissuta da adolescente a quella metropolitana milanese così disorientante dove i rapporti personali si perdono nella solitudine, oltre alle “tirate” rock, cala l’asso della memoria, del racconto storico, di ciò che non possiamo dimenticare se vogliamo essere seri davanti al futuro che si intravvede.
Non è un caso che i titoli dei suoi primi album sono un grido comunitario e solidale: “Nessuna resa mai”, “Non mollare”, diventano il suo marchio di fabbrica.
In “Dolce resistenza” del 2006, pubblica uno dei suoi brani più commoventi, “La strada del Davai”: una ballata dal sapore di antico canto popolare dove si racconta in forma di lettera di un alpino che durante la Campagna di Russia, voluta da Mussolini, finita poi in disfatta per gli italiani, scrive alla sua mamma. Un testo pieno di umanità e di dolore con la voce che fa fatica ad uscire.
È una tappa importante per lo stesso Priviero, che a ridosso dell’uscita della canzone afferma: “Gli alpini sono un passo avanti a noi. L’idea antica che li accompagna ha portato molta di questa gente verso un tipo di spiritualità elevato, ma straordinariamente semplice in termini di purezza, di rapporti umani, di sofferenza, di pane condiviso (…) spesso sul palco cerco proprio questo spirito, questa condivisione. Il mio rock, la mia musica è spesso uno strumento per arrivare proprio a questo”.
Per confermare questa “missione”, Priviero nel 2017 pubblica un progetto concept: “All’Italia”.
Tutti brani nei quali memoria storica e attualità si intersecano per raccontare gente italiana nelle più disparate situazioni: gli emigranti del primo novecento, i perseguitati dagli uomini del maresciallo jugoslavo Tito durante la strage delle Foibe e la drammatica fuga al confine italiano triestino, fino alla straziante lettera di addio di una ragazza italiana uccisa nell’attacco terroristico del Bataclan di Parigi. Oggi si direbbe un album “patriottico”, ma nella accezione positiva del termine.
E arriviamo alla fine di ottobre 2024 con l’uscita del nuovo album “Diario di vita”: “Ogni traccia, un capitolo di vita. Forza di vivere. Fragilità di vivere. (…) Il bambino diventa ragazzo, poi uomo (…) Passato, presente, futuro (…) foto struggenti, introverse e acustiche (…) altre volte scariche di energia elettrica di quel che chiamiamo rock d’autore. (…) Inizio, sviluppo, compimento d’esistenza artistica e di vita”. Questa la presentazione dell’autore e se andate sul suo sito ufficiale, troverete molte altre riflessioni.
In questo lavoro molto autobiografico, Priviero ancora una volta non delude il suo pubblico, offrendo un orizzonte di testi semplici e immediati che descrivono fasi e sentimenti di una vita personale, toccando gli argomenti più intimi: i rapporti intergenerazionali famigliari, il ricordo del primo amore perso, gli amici, gli incontri che hanno segnato la vita, cartoline ingiallite dell’adolescenza con lo sguardo al mare, la malinconia per la propria terra e la visione avventurosa di nuove esperienze in altri territori, il grido per il grande desiderio, il sogno di una giusta pace cantando i volti dei bambini.
E su tutto la convinzione che ciò che unisce è il suono del rock, quello del giovane Springsteen, perché anche se l’autore cita espressamente Bob Dylan e Van Morrison, tutta l’atmosfera dell’album è pervasa dal suono di “Born to run”, tirate rock che si concludono con lunghi finali, dove la band, le voci e a tratti l’orchestra si fondono in lunghi prologhi quasi come se non ci fosse un domani (addirittura nella tiratissima “Il suono” sembra riecheggiare il sax del compianto Clarence Clemons).
Quello di Priviero è un rock “dritto per dritto”, non ricercato, esasperatamente elementare ma con i ritornelli che ti si appiccicano e non ti abbandonano più, grazie anche ai cori (c’è posto anche per un inno del Settecento scozzese) che aspettano solo di essere cantati con grande trasporto tutti insieme nel concerto.
E se abbiamo voluto bene al Boss nel recente docufilm “Road diary”, non possiamo non volerne a Massimo Priviero in questo suo “Diario di vita”.
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