Questa volta persino la massoneria ufficiale si è risentita e, attraverso il gran maestro Stefano Bisi, ha dichiarato quasi sorridendo che la “loggia Ungheria” non esiste proprio nel “Grande Oriente d’Italia”. Quando esplose “l’affaire P2” nessuno nella massoneria osò fare dell’ironia, perché Licio Gelli era diventato gran maestro di una loggia che era stata guidata niente meno che da Giuseppe Garibaldi e fra i suoi adepti aveva avuto anche un eroe dell’antifascismo come Giovanni Amendola, il padre di Giorgio Amendola.



Questa volta è il Grande Oriente che guarda con un buon grado di ironia e, forse quasi con compassione, la magistratura italiana, da quella del Consiglio superiore della magistratura alla Procura di Milano, ad alcuni “eroi” della svolta epocale avvenuta nel 1992, quando la politica è stata formalmente massacrata (con cinque partiti democratici esautorati) da una combinazione mediatico-giudiziaria, foraggiata o incoraggiata probabilmente da potenti lobbies economiche e finanziarie nel nome di un programma di demenziali privatizzazioni che hanno voluto impoverire il tessuto industriale “misto” dell’Italia.



Quello che sta accadendo in questi mesi e in queste ultime settimane, all’interno della magistratura, si impone alla ribalta della cronaca, nonostante gli sforzi quasi sovrumani e anche para-comici di giornali e telegiornali che preferiscono “gli approfonditi dibattiti” sul rapper Fedez, praticamente il nuovo Giuseppe Verdi dell’Italia di oggi, e la scoperta dell’acqua calda sulla lottizzazione della Rai, condizione che esiste dagli anni Cinquanta del Novecento.

Gli antichi greci spesso erano irrispettosi con i loro dei, ma non scherzavano sul “fato” (il destino che stava sopra tutto), sulla nemesi (la compensazione storica), sulla hybris (la tracotanza che alla fine ti fregava).



Facciamo un attimo di cronaca attuale e vedremo che forse gli antichi greci avevano ragione. La sintesi della cronaca di questi giorni parte dalla rivelazione sulle dichiarazioni di un avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, già condannato per corruzione e accusato tra l’altro di millantato credito e traffico di influenze. Nel dicembre del 2019, Amara viene interrogato dal pubblico ministero milanese Paolo Storari e parla di una sedicente “loggia Ungheria” di cui farebbero parte magistrati, politici e alti esponenti delle istituzioni. Storari rimane sconcertato e sollecita polemicamente il capo della sua procura, Francesco Greco, di lentezza nelle indagini. Ma non si limita a questo passo e quindi consegna documenti e verbali a Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm, andato in pensione con suo grande dispiacere. Davigo parla della questione, informalmente a quanto sembra, con il vicepresidente del Csm, David Ermini. Quindi arriva il colpo di scena, perché i verbali di Amara arrivano a una giornalista di Repubblica e a un cronista de Il Fatto Quotidiano (giornali famosi per il loro sostegno ai magistrati) e di tutto questo viene sospettata e indagata l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto, già soprannominata, come in altri tempi sempre nell’ambito della magistratura, il “corvo”.

La violazione del segreto istruttorio, il pandemonio tra procure e all’interno delle procure diventa di dominio pubblico. Al momento, oltre alla ex segretaria di Davigo, viene indagato anche il pm Paolo Storari, mentre Davigo è stato ascoltato solo perché “informato dei fatti”, come hanno ripetuto ossessivamente in questi giorni telegiornali e quotidiani.

Il quadro complessivo, se così si può dire, è molto complicato. Il tutto, come appunto in una combinazione tra fato, nemesi e hybris, avviene dopo che un sondaggio ha rivelato che l’88% degli italiani non ha più fiducia nella magistratura e pretende una riforma della giustizia civile e penale.

Perché tutto questo? In fondo, anche nel 1987, nel referendum sulla responsabilità dei magistrati, gli italiani arrivarono all’80% dei consensi. Ma allora si era consumata l’infamia del caso Tortora e altre cose distrassero l’opinione pubblica.

Oggi è più difficile trovare diversivi e “armi mediatiche di coercitiva istruzione di massa”, perché l’ennesimo scandalo arriva dopo la denuncia documentata da Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ne Il sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana. Un libro con una confessione sconvolgente, che di fatto ribalta la storia italiana di questi ultimi 29 anni, da quando partì Tangentopoli a quando, dopo i tentativi di depenalizzazione del finanziamento illecito, il pool delle “manine sporche” si presentò compatto in televisione per contestare leggi in gestazione. Una vergogna tutta italiana, indimenticabile. Parlarono in diretta dagli schermi della Rai, come Fedez, il “re del congiuntivo”, Antonio Di Pietro, e il nuovo “Irnerio” di Candia Lomellina, al secolo Piercamillo Davigo, probabilmente sostenitore-innovatore della “presunzione di colpevolezza” nel processo penale.

Quegli stessi magistrati erano rimasti distratti di fronte alla montagna dei finanziamenti sovietici al Pci, una storia di anni, e già si preparavano libri documentati e importanti come L’oro di Mosca, scritto da Gianni Cervetti, e Oro da Mosca scritto da Valerio Riva, che riportava anche i conti correnti di cui si servivano il Pci e i suoi successori travolti infine dalla caduta del Muro di Berlino. Viveva ancora, in quel periodo, un uomo che era stato decisivo nel traffico di denaro, Giuseppe Stante, presidente dell’Italturist e anche vicepresidente della Banca Popolare di Milano, che sapeva tutto degli affari moscoviti del Pci e non ne poteva più di questo traffico.

Ma a proposito di libri messi all’indice, c’è una strana storia riguardo a The Italian guillottine, testo scritto nel 1998 da Stanton H. Burnett e da Luca Mantovani, in inglese, e mai tradotto in italiano fino all’estate del 2020, quando il libro arriva sul nostro mercato, ma viene ritirato dai due autori perché tagliato e tradotto malamente, soprattutto in parti importanti. Il libro rimase e rimane ancora un “fantasma inquietante”, perché Burnett era stato un diplomatico americano che stava a Roma tra il 1970 e il 1980 e poi arrivò a far parte della United State Information Agency. Di cose ne aveva viste e sapute tante.

La tesi fondamentale del “libro fantasma” era questa: i magistrati nello sgretolare i partiti della Prima Repubblica erano motivati politicamente e avevano l’appoggio di poteri forti, lobbies finanziarie e postcomunisti sopravvissuti alla loro storia. Era una tesi che Craxi ribadiva spesso. In un messaggio inviato all’Internazionale Socialista del 1997, Craxi, esule ad Hammamet, scrisse che “In Italia hanno preso corpo e hanno agito con la più grande determinazione e d’intesa tra loro, la violenza di clan giudiziari e quella di clan dell’informazione, sostenuti all’inizio da potenti lobbies economiche e finanziarie. Era una falsa rivoluzione e un golpe postmoderno”.

Si dice che la riforma della giustizia sia una condizione indispensabile per avere i soldi dall’Europa dopo la pandemia. Sarà bene farla e ricostruire, anche attraverso una commissione d’inchiesta, quello che è avvenuto in questi anni. Forse è arrivato il momento di una riflessione generale e di una autoriflessione di carattere marxiano: la storia ha tempi e scadenze che vanno rispettate. Chi non lo fa rischia di esserne travolto. All’attuale classe dirigente la scelta certamente non facile, anche quella di rispettare la storia.

Quando l’ex magistrato Alfredo Robledo chiama Davigo “Pieranguillo” e quando il magistrato Sebastiano Ardita telefona in diretta a una televisione per affermare contro Davigo “È un fatto di inaudita gravità dire che non è possibile seguire le vie formali. Sono pronto a un confronto con Davigo”, vuol dire veramente che la storia di questa struttura della magistratura è veramente finita.

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