Ieri pagina 11 del Sole 24 Ore è stata occupata da un “avviso a pagamento” sotto forma di lettera aperta firmate dal presidente di ASSISTAL e di Ance Roma-Acer, l’associazione dei costruttori edili di Roma e Provincia. La lettera è degna di nota sia per il giornale che la “ospita”, sia per il contenuto, sia per il destinatario. I firmatari lamentano che “agli slogan del Governo” per la ripresa non “hanno fatto sempre seguito provvedimenti idonei” al perseguimento degli obiettivi. L’accento è in particolare sul “caro materiale” e il “caro energia” per i quali da mesi, secondo i firmatari, si stanno registrando aumenti non più sostenibili. Il fondo da 100 milioni messo in campo da Parlamento e Governo viene ritenuto assolutamente insufficiente. 



La lettera sfiora la commissione del ministero incaricata di registrare le variazioni di prezzo dei materiali nei primi mesi dell’anno che sarebbero largamente inferiori a quelli, fino al 40%-50%, rilevati dai firmatari. In questi stessi giorni apprendiamo che l’unico produttore di zinco e piombo italiano (Portovesme) posseduto da Glencore sospende la produzione a causa dell’incremento dei prezzi dell’elettricità a seguito dell’esplosione dei prezzi del gas in Europa. 



I rincari delle materie prime sono un argomento relativamente inesplorato dai grandi media assorbiti dal Covid e dalle varianti, ma il problema è così diffuso e grave da farsi strada con toni quasi drammatici. Il problema è “fisico” e solo in parte causato dalle politiche di immissione di liquidità delle Banche centrali o dagli stimoli all’economia che molti Governi hanno messo in campo, in primis gli Stati Uniti. Ciò si evince sia dalle discussioni di questi giorni sui possibili blackout in Europa, sia dai divieti di esportazione che molti Paesi stanno introducendo. Le catene di fornitura globale sono sotto enorme stress e ci vorranno molti trimestri prima che la situazione si possa normalizzare; gli stoccaggi di gas in Europa sono sotto la media e l’inverno quest’anno sembra arrivato prima del solito. Questi problemi si risolvono con una politica industriale pro-impresa e realistica che metta al centro l’aumento della produzione di materie prime, di gas e di energia elettrica a costi sostenibili. 



Non ci sono soluzioni facili, perché come minimo bisognerebbe spiegare che la rivoluzione verde e la transizione energetica non potranno funzionare prima di uno o due decenni; sempre ammesso che la transizione abbia un saldo positivo nei confronti dell’ambiente e del territorio. La soluzione non è facile perché richiede molto tempo; richiede l’apertura di nuovi impianti che non possono sopravvivere se i costi energetici sono questi e richiede investimenti in idrocarburi. La prima “reazione” è difendere quello che c’è e che invece oggi chiude schiacciato da costi insostenibili. Al di fuori di questo non ci sono soluzioni vere, perché l’incremento dei costi alla fine provocherà un calo della domanda tanto più forte quanto più alta sarà l’inflazione “cattiva” e perché alcune delle ipotesi di cui si discute in questi giorni, come i blackout, sembrano scorciatoie e precedenti scivolosissimi. Passare da un’ora di blackout al giorno, che esime da un esame di coscienza sull’ideologia di questi anni e fa prendere tempo su un percorso complicato, a un paio di giorni alla settimana è molto più facile di quanto sembri. Con buona pace di chi deve far andare la lavatrice o tenere aperta un’impresa. 

Avere energia e materie prime abbondanti e a buon mercato oggi come 70 anni fa, dopo la Seconda guerra mondiale, è condizione necessaria per qualsiasi ripresa. L’altra è un ambiente con meno burocrazia possibile e pro-impresa. 

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