Dal caffè al petrolio, passando per il gas naturale, ovunque è in atto una robusta ripresa dei prezzi delle materie prime, fenomeno destinato a prender velocità grazie all’effetto catena: concimi e fertilizzanti, ad esempio, stanno ritoccando al rialzo i listini, anticipando così i futuri rialzi delle materie prime agricole. Ma quali conseguenza avrà l’inflazione da costi? La ripresa sopravviverà al rally delle commodities?
È una delle domande chiave della ripresa dopo i lockdown che hanno paralizzato le economie un anno fa. Allora, a metà marzo del 2020, in piena pandemia, un laconico cartello sulla porta d’ingresso del London Metal Exchange annunciava la chiusura del Ring, la sala delle contrattazioni che da sempre riecheggiava delle voci di compratori e venditori di alluminio, rame e stagno. Un’istituzione della City che non aveva interrotto le attività nemmeno sotto le bombe della Seconda guerra mondiale. Non riaprirà più, sentenziarono i più pessimisti, rassegnati a passare agli scambi elettronici. Ma, una volta tanto, le Cassandre sono state smentite. Il 6 settembre il Ring ha riaperto i battenti, sfoggiando tappeti rossi nuovi di zecca. La vera sorpresa, però, era un’altra. Diciotto mesi fa, in pieno lockdown, l’ultima tonnellata di alluminio era passata di mano a 1.500 dollari. Lunedì scorso, il 13 di settembre, un contratto, consegna a tre mesi, è passato di mano a 3.000 dollari. Il doppio esatto.
È l’alluminio il caso più clamoroso della riscossa delle materie prime industriali. A favore del metallo giocano le robuste prospettive future, grazie al suo ruolo nella transizione verso l’energia pulita, e al giro di vite della Cina sulle emissioni nelle sue industrie ad alta intensità energetica. L’ultimo salto, poi, è stato guidato dai disordini politici in Guinea, una fonte chiave di fornitura di bauxite, materia prima utilizzata per fare l’allumina, che viene successivamente trasformata in alluminio. La Guinea, spesso chiamata l’Arabia Saudita della bauxite, detiene la riserva più grande del mondo insieme alla Cina. Quest’ultima è il più grande produttore di alluminio e si approvvigiona di più della metà della bauxite proprio dalla Guinea. La situazione politica della Guinea spinge al rialzo un metallo già guidato dalle prospettive di una forte domanda che aumenta il deficit visibile in Cina e in Occidente.
Ma, oltre all’alluminio, la cronaca economia in questi mesi registra il rialzo di altre commodities non meno strategiche. Non solo tra i metalli industriali, visto il forte rialzo del gas naturale, del disprezzato carbone e dell’uranio (altro materiale che risente di una transizione energetica appena agli inizi). Ancor di più conta la congiuntura drammatica dei semiconduttori la cui carenza è destinata a prolungarsi almeno a tutto l’anno prossimo.
Metalli industriali, gas e semiconduttori sono tre ipoteche sull’aumento dei prezzi che le banche centrali si ostinano a presentare come fenomeno temporaneo e non strutturale. Ma Andy Haldane, libero di esprimersi al di fuori dell’ufficialità nel discorso di commiato alla Bank of England, dice in pratica che non c’è solo il rischio ma la quasi certezza che l’inflazione elevata diventerà la narrazione dominante e che le pressioni lungo tutta la curva dei rendimenti provocheranno un rialzo dei rendimenti ufficiali e di mercato.
Le economie, insomma, dovranno fare i conti con l’inflazione, sperando che la ripresa proceda rapida e robusta, scongiurando lo spetto della stagflazione. Da quel punto di vista l’aumento delle commodities ha un duplice aspetto positivo: è un segnale di miglioramento dello stato di salute della congiuntura; può offrire ai Paesi emergenti, il più delle volte fortemente indebitati in dollari, i mezzi finanziari per far fronte all’apprezzamento della valuta americana.
Ma, inutile negarlo, l’autunno parte in salita: i mercati finanziari dovranno fare i conti con un costo del denaro più elevato; l’aumento dei prezzi può provocare richieste di aumenti salariali, la congiuntura negativa della Cina può ripercuotersi su vari settori, non solo il lusso. Gli investimenti nell’energia verde peseranno sulla transizione a un’energia più pulita proprio mentre esplode il prezzo del gas naturale. Per non parlare dell’impatto del cambiamento ambientale sulle soft commodities, a partire dai cereali colpiti dall’emergenza climatica dal Canada in giù.
È questa la cornice in cui la Federal Reserve si accinge settimana prossima a prendere la decisione più difficile, virando seppur con grande prudenza verso il porto di tassi più alti in grado di remunerare gli investimenti reali, senza far saltare gli equilibri delicati di un mondo pesantemente indebitato. Una manovra simile, nel 2013, finì male, obbligando Ben Bernanke a una rapida ritirata. Speriamo che stavolta vada meglio, ovvero che la mini-stretta non soffochi la ripresa nella culla come sta capitando in Cina dove la stretta sull’immobiliare ha provocato il tracollo del colosso Evergrande.
La sfida è combinare aumenti soft dei tassi a un’inflazione salariale contenuta in grado di accompagnare la ripresa graduale dei consumi. In questo caso, la nuova normalità del post-Covid si tradurrà in un po’ di inflazione in più (un punto o giù di lì) senza disturbare troppo le Borse e, una volta disinnescate le intemperanze sovraniste, aiutando l’evoluzione virtuosa dell’Eurozona. Una volta tanto, le cose potrebbero andare davvero bene.
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