“Ecco, per una volta siamo d’accordo: Mattarella for President”, scriveva ieri mattina Norma Rangeri, a conclusione del suo editoriale sul Manifesto. A fianco, la proverbiale cover del “quotidiano comunista” strillava “Opzione Donna” su una porta (chiusa) del Quirinale. Un titolo non brillante come decine di altri: chiaramente irridente, invece, sulla candidatura (sfumata) di Maria Elisabetta Casellati.
Che il giornale storico della sinistra irriducibile – nato da una scissione nel Pci all’indomani del Sessantotto – invochi la rielezione di un presidente Pd-ex-Dc e schernisca la prima vera candidatura femminile al Quirinale nell’intera storia repubblicana, sembra davvero segno profondo dei tempi. Nessuno può dimenticare quando proprio la fucina giornalistica del Manifesto coniò uno dei lemmi più riusciti e resistenti nello slang politico italiano: “Non moriremo democristiani”.
Era il giugno 1983 e la Dc di Ciriaco De Mita (in cui Sergio Mattarella militava come deputato) subì una sconfitta elettorale pesante (l’anno successivo per la prima e unica volta il Pci sorpassò la Dc alle europee). Il direttore-fondatore del Manifesto, Luigi Pintor, si fece prendere dall’entusiasmo: che però durò poco. Se Enrico Berlinguer morì già nel 1984, gli anni 80 e 90 videro il Quirinale tornare nelle mani democristianissime di Francesco Cossiga e quindi di Oscar Luigi Scalfaro. Al governo – assieme a Bettino Craxi e Giuliano Amato – si alternarono De Mita, Giovanni Goria, Giulio Andreotti e perfino Amintore Fanfani. Il Manifesto non smise di sfornare quotidianamente titoli arguti e godibili: sempre fustigando l’Italia “democristiana”, che tale rimase nella Seconda Repubblica, si alternassero a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi e Romano Prodi; o al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi o Giorgio Napolitano (l’ex comunista “migliorista” che per Il Manifesto era avversario peggiore di ogni democristiano). Ora “Mattarella for President”? Firmato da un direttore “rosa”, allieva di Luciana Castellina?
Il vero e decisivo grande elettore del Mattarella-bis appare sempre più essere stato Gianni Letta: il (post)democristiano decisivo nell’ascesa di Silvio Berlusconi come leader di quell’ampia porzione della vecchia Dc che, dopo la svolta del 1992-94, divise il suo destino dalla sinistra, infine confluita nel Pd.
L’ansia del Cavaliere di “morire democristiano” è del tutto comprensibile e giustificata. Dieci anni fa fu letteralmente sloggiato a forza da Palazzo Chigi da parte di mercati e potenze occidentali assortite pur essendo stato votato nel 2008 dalla netta maggioranza degli italiani. Nel 2022 – da un ospedale di Milano – è stato ancora in grado di condizionare l’elezione del presidente della Repubblica, il suo impero televisivo e finanziario è intatto; la magistratura che per trent’anni lo ha braccato ogni giorno senza quartiere è in pezzi. Lui ha vinto l’ultima battaglia e probabilmente la guerra. Il Paese, ancora una volta, no.
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