Fedele al motto che chi entra Papa in conclave esce cardinale, l’Italia da ieri sera ha un presidente diverso da quello più largamente pronosticato alla vigilia. Mario Draghi si era candidato nella conferenza stampa di fine anno, aveva offerto ai giornalisti l’immagine del nonno a disposizione delle istituzioni, aveva condotto sottotraccia una campagna discreta ma insistente. Se Silvio Berlusconi aveva scelto l’operazione Scoiattolo, il premier aveva optato per la strategia della talpa: tunnel sotterranei nei quali fare cadere i voti.
Non è scontato ricordare che il presidente è Sergio Mattarella e non Draghi. Ma bisogna guardare a questo ultimo periodo con attenzione perché il presidente del Consiglio ha fatto vedere di sé lati finora rimasti in ombra. Il salvatore della patria, il banchiere taumaturgo, l’uomo che trasforma in euro tutto ciò che tocca si è mostrato troppo distante, privo di consiglieri all’altezza, ambizioso e sprezzante. Era curioso vedere Berlusconi che si piegava a elemosinare voti a uno a uno grazie alle telefonate di Sgarbi mentre Draghi se ne restava chiuso a Palazzo Chigi convinto che i consensi sarebbero piovuti dal cielo per chissà quale grazia ricevuta. Senza un partito, senza mai essere stato eletto ma soltanto cooptato, l’uomo che non deve chiedere mai non l’ha fatto nemmeno questa volta.
Così il nonno delle istituzioni si è logorato. È rimasto alla guida del governo, forse tra qualche anno se Mattarella deciderà di ritirarsi anzitempo potrà ambire al Palazzo che ospitò papi e re, ma al momento deve restare ai remi. E per lui la vera prova comincia ora. Al suo arrivo fu accolto dal favore collettivo, il successo della campagna vaccinale gli ottenne il consenso popolare e l’ammirazione delle cancellerie europee. Poi è sopraggiunto il semestre bianco, quello nel quale tutto è congelato. Ora invece, dopo l’incoronazione bis di Mattarella, gli toccherà fare politica, tenere a bada partiti che mai come in questa occasione si sono dimostrati eterogenei e che d’ora in poi saranno preoccupati soltanto di fare campagna elettorale. I primi segnali di nervosismo vengono proprio da uno dei ministri più draghiani, cioè Giancarlo Giorgetti, il quale ha fatto capire che adesso nel governo e nella maggioranza qualcosa deve cambiare. È finito il tempo nel quale bisognava accettare e digerire tutto in nome dell’emergenza.
Matteo Salvini ha tentato a modo suo di smuovere qualcosa nell’immobilismo generale. Ha proposto, talvolta abbandonando la cautela, nomi a ripetizione, tutti stoppati da Letta, indisponibile a considerare qualsiasi altra ipotesi che non fosse il bis di Mattarella. Non si è limitato, come Giorgia Meloni, alla battaglia identitaria sul candidato di destra, con l’unico possibile sbocco di contarsi ma restare minoranza. Se la Lega fosse stata fuori dal governo, la partita del Quirinale si sarebbe chiusa subito. Il Pd l’ha resa ingiocabile, ha ostacolato ogni spunto di cambiamento, perfino la terna di donne di sinistra messa sul tavolo proprio dai Dem e poi rilanciata da Salvini e Conte. Con il solo risultato che così anche il centrosinistra ha mostrato tutte le sue divisioni interne. Il capo del Carroccio ha ottenuto che lo scontro finisse senza vincitori né vinti, una patta si direbbe negli scacchi.
E qui merita una citazione un passaggio politico sostanziale, nascosto nelle pieghe degli eventi che hanno preceduto la conclusione delle trattative. Venerdì pomeriggio, dopo il naufragio della Casellati, Forza Italia ha annunciato di avere le mani libere e di voler trattare da sola. L’obiettivo dell’operazione forzista non era una figura femminile, ma neppure Mattarella: era – come pure per FdI– Draghi, per di più con il supporto diretto di Berlusconi. Chi l’ha fatta saltare è stato, in extremis, il leader leghista, giocando per primo la carta Mattarella, l’unica rimasta per mettere fine all’operazione-Draghi. Si legga l’intervista odierna, rivelatrice, di Tajani al Mattino.
Un risultato Enrico Letta l’ha ottenuto, cioè mostrare tutte le divisioni del centrodestra. Da un lato l’identitarismo della Meloni, dall’altro la ripicca di Berlusconi, il quale ha permesso che la seconda carica dello Stato, del suo stesso partito, venisse impallinata per favorire l’approdo mattarelliano. Il centrodestra come l’abbiamo finora conosciuto è finito in archivio.
L’esultanza è generale per il presidente responsabile che si sacrifica per l’Italia. Onore al merito. Per un’altra settimana prevarrà l’euforia per la teoricamente riconquistata compattezza della maggioranza. Poi bisognerà ricominciare a governare. E lì si vedrà se la coppia Mattarella-Draghi che tutto il mondo voleva è ancora quella di prima o ha cominciato a consumarsi.
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