Caro direttore,
Sergio Mattarella, riconfermato, è stata salutato ieri come un presidente in sommo grado istituzionale, “di tutti gli italiani”. Allo stesso tempo – sempre a reti unificate – la sua rielezione è stata registrata alla voce “fallimento della politica”; ma anche come frutto di una “rivolta del Parlamento contro il sistema dei partiti e le minacce tecnocratiche”. Una narrazione così contraddittoria sembra meritare qualche riflessione.



La prima riguarda Mattarella: uomo politico forgiatosi per intero nella prima Repubblica. Un prodotto – in sommo grado – dell’Italia dei partiti. Il padre Bernardo fu ininterrottamente deputato Dc in carica dal 1946 al 1971: morì solo pochi mesi prima che il Parlamento eleggesse al Quirinale Giovanni Leone, democristiano del Sud. Furono le presidenziali più difficili e oscure della storia repubblicana: al giro di boa fra i conati golpisti degli anni 60 e gli opposti terrorismi dei 70. Leone prevalse solo al 23esimo scrutino, per un pugno di schede neofasciste “in libera uscita”. E concluse il suo mandato con dimissioni disonorevoli, in seguito allo scandalo Lockheed.



Il deputato Mattarella jr si è ritrovato anzitutto a votare il compagno di partito Francesco Cossiga: eletto presidente al primo turno nel 1985, ma anche lui dimissionario anzitempo nel 1992. E fu da vicesegretario Dc che Mattarella visse le presidenziali forse più drammatiche: quelle da cui uscì eletto il Dc conservatore Oscar Luigi Scalfaro, come risposta democratica alla strage di Capaci. Ma non prima che le lotte intestine alla Dc immolassero nel segreto dell’urna Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani: due grandi “mohicani” della prima Repubblica partitocratica, ormai braccata da Tangentopoli. La sinistra Dc (di cui Mattarella era già uno dei leader) fu allora non meno implacabile dei parlamentari Pd (Renzi ed ex Ds) che nel 2013 impallinarono Romano Prodi.



Già nel 2006 la Margherita di Mattarella (figlia del Ppi e nipote della Dc) non aveva avuto però remore a votare al Quirinale Giorgio Napolitano, ex funzionario del Pci. Che non fu mai “il presidente di tutti gli italiani” (raccolse infatti solo 543 voti a Camere riunite) e inaugurò invece una discussa stagione “semipresidenzialista”. Nel 2011 fu per sua iniziativa che Silvio Berlusconi – premier di centrodestra dotato di una netta maggioranza elettorale – fu rimosso e sostituito dal tecnocrate Mario Monti, rivestito ex ante di panni para–parlamentari di senatore a vita. E il “sempresidenzialismo” è continuato poi con Mattarella: anzitutto nel confronto con l’emergere impetuoso del populismo antipolitico/antipartitico di M5s.

Se il Mattarella del 2022 – dipinto infine come “santo antipolitico” – è lo stesso del tardo Novecento iperpartitico e della seconda Repubblica più tormentata, non è facile neppure eludere un confronto ravvicinato fra i Parlamenti che hanno eletto Leone oppure pugnalato Andreotti e quello che ha infine confermato Mattarella. Si legge in queste ore che la riconferma è stata l’esito “miracoloso” di una sana “ispirazione civile” del Parlamento, alla ricerca della propria sovranità perduta nel biennio della pandemia. Premesso che la “Repubblica dei Dpcm” (guidata da un premier non eletto, grillino e ribaltonista) è stata totalmente legittimata e pilotata dal “dem” Mattarella al Quirinale, difficilmente quanto è avvenuto a Montecitorio nell’ultima settimana può essere qualificato come proprio di “civiltà politica”.

È forse inevitabile che sotto tutti gli strali finisca oggi il leader della Lega, Matteo Salvini. Ma qualche giudizio – sul piano della “civiltà politica” – lo meriterebbe il silenzio ai limiti dell’omertà mantenuto dal leader Pd Enrico Letta mentre nei corridoi fervevano le manovre di sabotaggio di ogni candidatura diversa da quella del presidente Pd uscente. Intento nel frattempo in un trasloco di facciata, mentre il suo nome veniva giocato in Parlamento come quello “balneare” di Leone cinquant’anni fa, utile a seppellire la candidatura del compagno di partito, il presidente del Senato Amintore Fanfani.

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