I media italiani insorti all’unisono contro l’attacco di Elon Musk ai magistrati tricolori sono gli stessi che nell’estate 2019 tifavano per il ribaltone di governo: quello che – sotto la regia del Quirinale dem di Sergio Mattarella – riportò al potere il Pd (duramente sconfitto al voto di un anno prima) associandolo a M5s, nel frattempo dimezzato alle europee del maggio precedente. Ma il premier del governo Lega-M5s non si sarebbe mai potuto trasformare nell’arco di poche notti in quello di un governo di centro-sinistra, se a “Giuseppi” Conte non fosse giunto il fondamentale endorsement del presidente Usa in carica: Donald Trump. Che forse sapeva a mala pena chi fosse quel premier italiano digiuno di politica e governo, trasmutato da giurista semisconosciuto a capo del governo e poi da simpatizzante grillino a cattolico democratico.
Trump 1 aveva comunque ben chiaro perché era utile che Conte rimanesse a Palazzo Chigi, senza troppi riguardi di nessuno per alcuna sovranità italiana, soprattutto sulla frontiera con gli Stati Uniti.
Il placet di Trump al Conte 2 giunse (via Twitter) il 27 agosto di cinque anni fa, una settimana dopo le dimissioni del governo gialloverde. Ma già a cavallo di Ferragosto – secondo ricostruzioni diverse ma mai smentite – Conte 1 aveva autorizzato i vertici dell’intelligence nazionale (di cui deteneva direttamente la delega) a incontrare in via non ufficiale William Barr, il ministro della Giustizia di Trump. Format e contenuti del contatto non sono mai stati chiariti del tutto. Secondo la ridda di voci attorno al cosiddetto “affare Milfsud”, Barr cercava informazioni di conferma sui sospetti riguardanti l’entourage dell’ex presidente dem Barack Obama nel costruire il cosiddetto “Russiagate”, poi svaporato a Washington contro Trump. Ma l’ex premier italiano Matteo Renzi – di cui è sempre stato noto il feeling coi dem d’Oltre Atlantico e che nel 2015 aveva portato al Quirinale Mattarella 1 – respinse subito sdegnosamente come “fake news” gli scenari di complotto internazionale. Il 5 settembre, in ogni caso, l’esecutivo Conte 2 giurava nelle mani del capo dello Stato.
I media che ieri hanno tirato la volata a Mattarella nel difendere contro Musk la sovranità costituzionale italiana (in particolare il suo ruolo di presidente del Csm) sono intanto gli stessi nel 2011 incitavano il predecessore dem Giorgio Napolitano a “fare presto” a cacciare il premier Silvio Berlusconi: bombardato a freddo dalle agenzie di rating di Wall Street e pugnalato quasi in pubblico alla Ue e nel G7 da Obama, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy.
Sono i medesimi media che, al contrario, non si indignarono affatto di fronte alla più grave “entrata a gamba tesa” dall’estero sulla sovranità – territoriale e istituzionale – del Paese. Ossia quando una motovedetta militare italiana fu speronata nel porto di Lampedusa da una nave olandese armata da una Ong non italiana e pilotata da una cittadina tedesca: figlia di un alto ufficiale della Kriegsmarine, eletta lo scorso giugno europarlamentare dell’estrema sinistra.
L’operazione fu condotta nel 2019 con uno stile paragonabile a quello odierno dei guerriglieri Houthi nel Mar Rosso: contro le direttive del governo italiano a difesa dei confini nazionali (ed europei esterni), alla vigilia del Consiglio Ue che avrebbe designato la nuova Commissione. I magistrati italiani decisero tuttavia – seduta stante e in piena autonomia – che la “capitana Carola” (Rackete) non fosse imputabile di alcun reato e la lasciarono subito libera di tornare in Germania. Chi è stato poi indagato, rinviato a giudizio e processato è stato invece il vicepremier Matteo Salvini, che difendeva la sovranità del governo italiano sul territorio italiano.
A demonizzare Musk sono, ancora una volta, i media che, trent’anni fa, non si stracciarono le vesti per l’attacco alla lira “sovrana” da parte del tycoon globalista George Soros. Al contrario: primo fra tutti Mario Monti (futuro commissario Ue e premier istituzionale esecutore dell’austerity dettata da Ue e mercati) colse l’occasione per lanciare un ultimatum sulle privatizzazioni, da fare tutte e subito. Con il “metodo Britannia”: l’appalto totale – da parte del governo di centrosinistra di Romano Prodi – della grande vendita di Stato alle grandi banche d’affari della City e di Wall Street. Le quali – dopo aver (s)venduto Telecom in Opv, senza riconoscere allo Stato italiano alcun premio di maggioranza – vi costruirono velocemente sopra la “Madre di tutte le Opa”. Sotto il governo D’Alema e sempre con un tifo mediatico scatenato.
A quell’epoca Tim – all’interno di un gruppo non ancora decapitato nel management e prosciugato di risorse – era battistrada della telefonia mobile in Europa e sembrava destinata a recitare da player strategico nell’avvento dell’era digitale. Google, Facebook, Twitter erano start-up di una banda di ventenni. Il 28enne Musk era intento a Zip2, la sua prima creatura nel web-sfera. In Italia il ruolo di azionista di riferimento in Telecom fu offerto dal governo alla famiglia Agnelli, la quale però pretendeva di guidare il colosso delle tlc senza tuttavia investirvi più dello 0,6%.
La Fiat si era lasciata alle spalle da non molti anni la scomoda presenza nell’azionariato della Libia del colonnello Gheddafi: un legame decennale – giunto alla soglia del 15% – che gli Usa giudicarono sempre più “interferente” nella loro sfera d’influenza pre-1989. Poi nella “sovranità aziendale” del Lingotto fu la volta della General Motors, più ortodosso partner a stelle e strisce. Infine fu necessario un maxi-salvataggio da parte delle banche italiane. Orfana di Sergio Marchionne, la Fiat approdò infine alla fusione (giudicata da molti una vendita mascherata) con la francese Stellantis.
Di questi giorni è il viaggio di John Elkann – erede dell’avvocato Agnelli – in Cina, al seguito di Mattarella: in visita ufficiale per riaprire canali commerciali e finanziari fra l’Italia e il Dragone, che non demorde dallo scongelamento della “Via della Seta”, anche alla frontiera neo-occidentale con l’Italia. “Jacky” Elkann sta forse cercando in Cina i mezzi necessari a rimpiazzare in Stellantis i sussidi pubblici negati dal governo italiano a una multinazionale ormai tutt’altro che italiana? Exor sta sondando la disponibilità di Pechino a un ingresso diretto nel capitale Stellantis, come ha già fatto in Italia con Pirelli? E questo nonostante Trump voglia sostituire le guerre guerreggiate di Joe Biden in Ucraina e Medio Oriente con una nuova confrontation economica con la Cina e con il reshoring occidentale di industrie strategiche?
Nel frattempo la Fondazione Agnelli – mentre Mattarella era a colloquio con Xi Jinping – ha annunciato l’istituzione di una cattedra universitaria di cultura italiana a Pechino: subito affidata da Elkann a Prodi, storico broker di relazioni fra Italia e Cina. La notizia è stata data con grande risalto dai media italiani: settore nel quale la famiglia Agnelli resta un editore dominante. Certo non più a livello digital-globale come lo è nel frattempo diventato Musk contro il quale oggi vengono lanciate pronte accuse di conflitto d’interesse: accuse sparite, invece, contro Fininvest da quando gli Eredi Berlusconi manovrano Forza Italia in dialettica con la premier Giorgia Meloni ed esibiscono apertura alle forze di opposizione nei palinsesti della loro tre reti nel duopolio Rai-Set.
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