“C’era una volta in America” è il titolo del celebre film di Sergio Leone che prendiamo in prestito per ricordare che oltreoceano c’erano la più grande democrazia del mondo, il rispetto dei diritti umani, il culto della libertà. E che in questa certezza siamo cresciuti quasi tutti, almeno in Occidente. Ora capita che dagli Stati Uniti arrivino notizie agghiaccianti circa i comportamenti violenti della polizia di quel Paese: secondo il gruppo non-governativo Mapping Police (riportato ieri dall’agenzia Ansa), gli agenti hanno ucciso nel solo 2023 ben 1.247 persone e oltre 9mila negli ultimi 9 anni, il più delle volte con armi da fuoco, ma anche tramite l’hogtying, pratica con cui il malcapitato si trova mani e piedi legati, a volte anche incappucciato e con un ginocchio a bloccargli il collo fino al limite del soffocamento, come avvenne per George Floyd nel 2020.



Scene molto peggiori di quelle del Far West di cinematografica memoria, dove un colpo di rivoltella poteva bastare a freddare chi contravveniva alle leggi dello sceriffo, ma molto vicine a quelle di un qualsiasi Paese di tipo dittatoriale. Anche perché in 2 casi su 3 tutto ha avuto origine da semplici “fermi” per disturbo della quiete pubblica e raramente i poliziotti sono finiti in carcere.



Ne è rimasto vittima anche il venticinquenne spoletino Matteo Falcinelli, ufficialmente in Florida per motivi di studio, che ha subito violenze in un locale di Miami Beach a fine febbraio scorso e la cui vicenda è balzata in cronaca solo negli ultimi giorni grazie ad un video-shock mostrato dalla madre. Pur non entrando nei particolari, per altro ancora non del tutto chiari, risulta comunque evidente come non ci troviamo di fronte ad un pericoloso italiano che si è mosso sulla scia dei mafiosi gangster anni Trenta, ma di una persona che aveva chiesto – magari in modo sopra le righe, non sappiamo – la restituzione dei due cellulari che gli erano stati trattenuti (o sequestrati?) dal proprietario del locale.



Rimane il fatto che comportamenti lesivi della dignità umana non possono essere accettati, così come non possono esserli quelli che hanno riguardato – e probabilmente ancora riguardano – Ilaria Salis, condotta in catene e in ceppi nel tribunale di Budapest nonostante qui si tratti di una 40enne milanese – età in cui la ragione dovrebbe aver preso ormai il sopravvento sull’istinto –, per di più maestra elementare, che certo non casualmente – lei che proviene dagli ambienti della sinistra gruppettara – si sarebbe trovata ad aggredire due manifestanti nel mezzo di una sfilata di stampo nazista.

Due casi diversi nei particolari ma simili negli esiti, eppure le reazioni nella stampa nostrana sono state differenti: nel caso della Salis con un clamore mediatico degno di miglior causa, in quello di Matteo Falcinelli con prese di posizione meno forti, giustamente affidate a qualche interrogazione parlamentare e alle azioni messe in atto dal nostro governo nella figura del vicepremier e ministro degli Esteri Tajani.

È lecito chiedersi il motivo per cui usare due pesi e due misure. I metodi della polizia contro Matteo Falcinelli nell’epoca del “democratico” Biden sono forse meno gravi di quelli visti nei tribunali ungheresi? Sembrerebbe piuttosto il contrario. Chissà perché, viene normale pensare ai diversi colori politici dei governi cui fanno capo Usa e Ungheria, da cui derivano posizioni ideologiche che non sono poi tanto diverse da quelle che fanno scendere in piazza i manifestanti pro Palestina a senso unico, mentre tacciono sui crimini commessi in Ucraina dal potere russo di nome, sovietico di sostanza. Come minimo ci attendiamo che anche Matteo Falcinelli possa venire candidato alle europee.

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