CHI ERA MATTEO MESSINA DENARO: DAGLI INIZI ALLA GUIDA DI COSA NOSTRA

Matteo Messina Denaro è morto a 61 anni: era l’ex capo di Cosa Nostra. Trent’anni di latitanza con alle spalle la responsabilità diretta di centinaia di esecuzioni, stragi e omicidi in ogni parte del mondo, ma ha scontato solo pochi mesi di carcere in regime in 41bis a L’Aquila dopo la cattura avvenuta il 16 gennaio scorso in una clinica privata di Palermo. Le sue condizioni di salute infatti avevano reso necessario il trasferimento in ospedale, dove si è spento.



Nato il 26 aprile 1962 a Castelvetrano in Sicilia, è divenuto in pochi anni il boss indiscusso del mandamento di Castelvetrano e della mafia del Trapanese, prendendo poi le redini di Cosa Nostra dopo gli arresti dei suoi “padrini” Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ritiratosi dopo l’inizio delle scuole Itis a Castelvetrano, Matteo Messina Denaro ha seguito le orme del padre don Ciccio, boss legato ai corleonesi di Riina, il gruppo responsabile delle stragi negli anni Ottanta e Novanta e colpevoli di aver ucciso tra gli altri i giudici antimafia Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. A vent’anni Messina Denaro partecipò in forma attiva con i corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice: per questo divenne subito un “diletto” del Capo dei Capi Totò Riina, ma si fece subito conoscere anche dalle autorità. Nel 1989 fu Borsellino a indagare Messina Denaro dopo le inchieste del commissario di polizia di Castelvetrano, Rino Germanà: Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, a bordo di una Fiat Tipo, intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo. Il poliziotto si salvò rispondendo al fuoco e gettandosi in mare, anche perché il Kalašnikov di Bagarella si inceppò: è dopo quell’attentato però che Messina Denaro divenne latitante, ufficialmente ricercato dal 2 giugno 1993. Con Messina Denaro la mafia si è “evoluta”, terminando il periodo della sfida aperta allo Stato e inaugurando una prima riorganizzazione volta al commercio internazionale di droga, stupefacenti e anche appalti pubblici. Ideò gli attentati a Roma, Firenze e Milano nel 1993, consigliò Totò Riina fin poco prima la cattura del superboss, divenendo di fatto l’erede “naturale”



LA MALATTIA DI MESSINA DENARO E LA CATTURA IL 16 GENNAIO 2023

Lunghissima la sfilza di omicidi e stragi ordinate/compiute da Matteo Messina Denaro, anche se nella mente resta su tutte l’assassinio di Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne di un mafioso pentito, rapito a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, il 23 novembre 1993. Il ragazzino venne strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca 11 gennaio 1996, dopo 25 mesi di prigionia fortemente voluti dal nuovo “boss di Cosa Nostra”. Riina si pentì di aver affidato la guida della mafia siciliana a Messina Denaro, tanto che in un’intercettazione nel carcere di Opera del 2013 svelò «Il padre l’aveva buono. Minchia però il figlio non ne prende niente. Questo signor Messina che fa questi pali, i pali eolici, i pali della luce se li potrebbe mettere nel culo. Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi». La “vecchia mafia” non accettava il nuovo corso tutto dettato dai soldi prima ancora che le stragi eclatanti.



Senza un nucleo familiare stabile (solo dopo l’arresto ha riconosciuto e incontrato la figlia Lorenza che ha poi deciso di prendere il cognome del padre), Matteo Messina Denaro è scappato per 30 anni dalla giustizia divenendo un “mito” nella criminalità organizzata di tutto il mondo per il suo non farsi mai trovare, tra covi e nascondigli cambiati di continuo tra la Sicilia e il resto del globo: una lunga lista di “amanti” o presunte tali, collaboratori compiacenti e complici della mafia sono riusciti a nasconderlo per appunto 30 lunghi anni, quando poi le condizioni di salute si sono fatte serie per il “Capo dei Capi” del nuovo millennio. Inoltre, molti del “cerchio” di protezione attorno a Messina Denaro – che impartiva ordini con “pizzini” e ritrovi nascosti, senza mai telefoni – sono stati catturati negli anni dalle forze dell’ordine con un’ottima rete di indagini antimafia che pian piano hanno portato alla clamorosa cattura: «Mi chiamo Matteo Messina Denaro», ha detto con fare arrogante al carabiniere del Ros che stava per arrestarlo lo scorso 16 gennaio. Finisce così la latitanza trentennale del padrino di Castelvetrano, finito in manette alle 8.20 mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, una delle più note della città. Come hanno spiegato i titolare delle indagini sulla cattura di Messina Denaro, il boss è stato preso grazie alla stessa strategia che portò all’arresto di Bernardo Provenzano: «prosciugare l’acqua attorno al latitante, disarticolando la rete dei favoreggiatori. I familiari del boss stretti dalla morsa degli investigatori alla fine hanno fatto l’errore fatale. Parlando tra loro, pur sapendo di essere intercettati, hanno fatto cenno alle malattie del capomafia». L’inchiesta è nata in quel frangente e tramite o dati della piattaforma del ministero della Salute che conserva le informazioni sui pazienti oncologici, si è riusciti a stilare una lista di pazienti sospettati: il nome che aveva tratto sospetti era quello di Andrea Bonafede, in quanto era parente di un antico favoreggiatore del boss. Dopo lunghi appostamenti e controlli incrociati si è scoperto che Bonafede nient’altro era se non Matteo Messina Denaro, facendo poi scattare il blitz la mattina di un controllo chemioterapico.