«Come quello che venne solo dall’Albania… vallo a trovare un esperto come questo… incomprensibile». A parlare è Totò Riina. Lo fa il 10 settembre 2013 nel cortile del carcere di Opera, durante la sua ora d’aria, con un altro detenuto, Alberto Lorusso. Dalle intercettazioni ambientali emerge, come riportato da Il Dubbio, che il boss mafioso fa riferimento ad un albanese parlando della strage in Via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Riina si stava lamentando del lavoro fatto male, del posteggio che andava preso davanti al portone. Ma chi è quest’uomo arrivato dall’Albania? Si tratterebbe di una persona che era ai domiciliari a Palermo, come raccontato da Riina al suo amico. Ne evidenzia l’esperienza e la facile reperibilità, perché era in città. Questo straniero sarebbe lo stesso di cui parla Gaspare Spatuzza, il pentito di Brancaccio? Raccontò che nel garage dove aveva trasformato la Fiat 126 rubata in una bomba micidiale, il giorno prima della strage c’erano Renzino Tinnirello e una terza persona, che non c’entrava nulla con Cosa nostra, uno sconosciuto che non parla. Partì l’inchiesta su Mister X e si arrivò ad un funzionario dei servizi segreti interni, Lorenzo Narracci. Ma il pentito, che inizialmente riferì di averlo riconosciuto tra le foto che gli erano state mostrate, si fece sempre meno convinto. Infatti alla fine Narracci fu scagionato.



Per gli inquirenti l’uomo venuto dall’Albania sarebbe legato all’attentato a Rocco Chinnici. Anche perché quello della macchina esplosiva vicino alla portineria è un elemento in comune con la strage di via Federico Pipitone, evidenzia il Fatto Quotidiano. Quando Riina ne parla dice di averne discusso con Nino, cioè Madonia, che però nel ’92 era in carcere, quindi non poteva aver concordato con lui la strage di via D’Amelio. (agg. di Silvana Palazzo)



RIINA “MESSINA DENARO ERA IN VIA D’AMELIO”

Matteo Messina Denaro, il latitante dei latitanti, il capo di Cosa Nostra dopo la morte di Riina e Provenzano, era presente di persona in Via d’Amelio il maledetto 19 luglio 1992 quando morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta: a rivelarlo oggi il quotidiano “Il Dubbio”, scartabellando tutte le intercettazioni di Totò Riina avvenute durante la permanenza in regime di 41bis in carcere. Lo indica con il nome in codice di “quello della luce”, perché si interessava del mercato e gli appalti sul’eolico. «Era lì. Tanto che Riina gli ha dato ordine di tenersi preparato. Le intercettazioni di Totò Riina offrono nuovi spunti. Tra le sue parole c’è la chiave di volta del movente delle stragi (che non è la “trattativa” visto che la smentisce diverse volte), omicidi eccellenti commessi, ma anche di come hanno operato per compiere gli indicibili attentati», scrive l’inchiesta di Damiano Aliprandi sul “Dubbio”.



Riina vedeva in Messina Denaro il suo naturale “erede”, era il designato nuovo “Capo dei Capi” (cosa che poi è effettivamente avvenuto), ma nel corso degli anni Rina rimase deluso dalla mancanza di adesione di Messina Denaro allo schema “stragista” posto in essere dai Corleonesi. Al super boss morto in carcere il 17 novembre 2017, non andava giù l’investimento sullo sfruttamento della green economy «Io …visto che questo è cosi intelligente, così stravagante … solo … com’è che non me lo ha passato a me questo discorso di fare pali della luce?», si lamenta Riina dal carcere.

PERCHÈ MESSINA DENARO SI TROVAVA IN VIA D’AMELIO?

Nelle varie intercettazioni affrontate solo di striscio nei vari processi sulla Strage di Via d’Amelio, Totò Riina racconta come è stata organizzata la “missione” mafiosa a Palermo: «Racconta di come è riuscito ad organizzare l’attentato in tre o quattro giorni, perché qualcuno gli disse di fare presto. Non in due giorni, ma tre o quattro giorni», spiega il “Dubbio”, interrogandosi su chi possa aver detto a Riina di “muoversi”, probabilmente spinto da qualche mossa fatta da Borsellino in quei giorni febbrili dopo la morte di Falcone a Capaci. Ebbene, Riina durante i colloqui del 6 agosto 2013, afferma chiaramente: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più». Riina parla anche di un misterioso uomo “dall’Albania” che potrebbe aver preparato l’attentato insieme a Messina Denaro e gli altri già condannati, forse imbottendo di tritolo la Fiat 126: ma in quelle intercettazioni c’è un omissis proprio in quella parte a questo punto, forse, davvero cruciale per capire come sia davvero andato quell’orrendo attentato di cui si celebra l’anniversario dei 29 anni il prossimo 19 luglio.