Matteo Messina Denaro ha vissuto a lungo nel territorio del Trapanese, il suo territorio, sicuro di non essere scoperto. Indagando dopo il suo arresto abbiamo scoperto che era stato addirittura fermato a un posto di blocco, sette anni fa, in provincia di Trapani. Ma non fu riconosciuto dai carabinieri che controllarono il suo documento. Tutto sembrava in regola”: lo ha rivelato il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, magistrato che ha coordinato le indagini che hanno portato all’arresto del capomafia avvenuto il 16 gennaio dell’anno scorso.



Il procuratore di Palermo ha parlato nel corso di un incontro con i ragazzi delle scuole di Casal di Principe, in provincia di Caserta. L’evento si è tenuto nella tenuta confiscata dove ha sede Casa don Peppe Diana, il luogo dedicato al sacerdote ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994.
 “Messina Denaro confidava sul fatto che le forze dell’ordine avevano sue foto vecchie di anni, ma c’era anche chi lo avvisava dei movimenti degli investigatori. Ci dobbiamo interrogare su come sia stato possibile che abbia trascorso trent’anni in latitanza. Oggi, l’impegno della procura di Palermo è quello di individuare chi ha favorito Messina Denaro” ha aggiunto ancora il procuratore.



Il procuratore De Lucia: “Cosa nostra ha subito colpi importanti”

Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, nell’incontro con i ragazzi delle scuole di Casal di Principe, ha affermato ancora: “La malattia non ha inciso, non aveva cambiato le abitudini del latitante”. Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, poi morto per un tumore, secondo il magistrato “Cosa nostra ha subito colpi importanti, è stata indebolita ed è più povera ma le famiglie provano sempre a riorganizzare un organismo di vertice e soprattutto ad arricchirsi nuovamente, attraverso il traffico di stupefacenti”.



Per il magistrato non è opportuno abbassare la guardia nei confronti della criminalità organizzata, anche nel rispetto delle vittime innocenti delle mafie che hanno sacrificato la loro vita. Nell’incontro ha preso parola anche il giornalista Palazzolo: “Il rischio più grande che oggi corriamo è quello di non comprendere l’evoluzione del fenomeno mafioso. Don Peppe Diana in Campania e don Pino Puglisi in Sicilia invitavano la Chiesa e la società civile a una testimonianza più attiva, per la liberazione del territorio, ma restarono soli. Per questo furono uccisi. Questo è il motivo per cui oggi non possiamo permetterci altre pericolose sottovalutazioni”.