Se qualcosa poteva rendere ancor più straziante quanto accaduto nelle Marche in questa settimana, con intere zone della provincia di Ancona ricoperte da detriti e fango provenienti da una bomba d’acqua anomala che ha trovato il territorio completamente impreparato a riceverla, la scomparsa del piccolo Mattia, 8 anni e affetto da autismo, strappato dalla furia della tempesta alle braccia della mamma mentre cercava riparo, è senza dubbio l’episodio che rischia di diventare l’emblema dell’intera tragedia.



Nessuno ne ha ancora dichiarato il decesso, e il padre – in una drammatica intervista ad un quotidiano – spera ancora di ritrovarlo vivo. I soccorritori, dopo così tante ore, sono di diverso avviso e la meticolosa descrizione che il papà fa alla stampa del piccolo rende sempre più impegnativo comprendere come quest’uomo potrà essere consegnato alla possibile verità. Chi legge queste notizie avverte un senso di impotenza che evita di diventare piena consapevolezza, sia per il fatto che la nostra mente è pensata per arginare il dolore sia per il rumore in cui ogni giorno gli uomini del XXI secolo vivono, il ronzio diffuso dei commenti, delle immagini, dei like, dei dibattiti virtuali che impedisce di comprendere che cosa abbia valore e che cosa – al contrario – non meriterebbe neppure la più piccola attenzione.



Mattia, in questo senso, è l’immagine di un’umanità ferita e incapace di comunicare, un’umanità che il Padre si ostina a cercare ritenendola ancora capace di vita e di speranza. “Mattia mi ha riempito la vita” dice l’uomo raccontando come il piccolo abbia imparato a comunicare il possibile e a socializzare con tutti. Nelle sue parole non c’è spazio per il passato: Mattia è un presente di cui ha tremendamente bisogno per continuare a vivere. L’autismo è – per chi lo incontra – una sorta di impatto col Mistero: non esiste una linea comune per tutti i casi che ne sono affetti e non esiste una strategia per bypassarlo. Nel rapporto con i bimbi autistici è fondamentale spogliarsi di tutto quel che si conosce e che si sa per raggiungerli nel mondo in cui sono apparentemente rinchiusi ma che, quasi per un miracolo, può improvvisamente schiudersi a insperate e sorprendenti forme di relazione e di espressività.



L’autismo ci insegna a essere uomini e la stessa parola sindrome, che anche qui è stata usata – al pari del verbo “essere affetti” – è quanto mai fuorviante perché, in qualche modo, l’autismo è una strada di umanità che obbliga coloro che vi si imbattono a percorrere la via di una costruzione paziente di amore e di relazione che dovrebbe essere la regola per ogni rapporto che vuole crescere in sapienza e dignità. Perdere Mattia dentro quel fango – e non si può neppure pensare alla madre che a tutto questo è sopravvissuta e che dovrà prima o poi realizzare quanto accaduto – significa perdere il Mistero dentro le intemperie della storia, rimanendo senza vita. In vita ma senza vita.

E allora nelle Marche, in questi giorni in cui muoiono le Regine e si rifanno i parlamenti, quel che è accaduto – in fondo – è il paradigma di questo nostro inizio millennio fatto di uomini che hanno perduto il Mistero e di un Padre che continua a cercarci. “Io sento che Mattia è laggiù” dice papà Tiziano. E come vorremmo tutti che fosse vero. Come vorremmo che qualcuno ci cercasse così, con questa certezza verso di noi. Il punto, che a volte dimentichiamo, è che Qualcuno ci cerca così davvero. Da sempre. Dentro ogni fango e ogni tempesta. Sicuro che sotto ogni tronco e ogni tragedia noi, magari travolti e stremati, siamo sempre lì. Indomiti nel nostro respiro. Perché la speranza non è sopravvivere, ma che Qualcuno continui a cercarci.

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