Leggo l’articolo di Davide Rondoni sull’esame di Stato e mi entusiasmo. Lo condivido riga per riga. Poi però mi trovo a chiacchierarne con qualche amico meno entusiasta di me; e allora mi tocca argomentare un po’ il mio entusiasmo. Proviamo.
Il dato da cui partire è che l’esame di Stato va verso i cent’anni. Il primo infatti fu celebrato – uso questo verbo di proposito – nel 1923. Nel 1923, meno del 2% degli italiani arrivava alla licenza liceale. Le sedi d’esame, nel 1923, erano, in tutt’Italia, 40 per la maturità classica, e 20 per la maturità scientifica. Le commissioni erano formate in buona parte da professori universitari, e quelli di liceo venivano da ogni angolo d’Italia. Lo scopo di quel tipo di esame era chiaro: garantire che la futura classe dirigente del Paese avesse, da Aosta a Siracusa, la stessa, medesima, identica formazione culturale di base.
Oggi, a quasi cent’anni di distanza, alla licenza della scuola superiore arriva oltre il 60% degli italiani. E, soprattutto, da mezzo secolo a questa parte la bandiera della scuola è stata la differenziazione dei percorsi, la sperimentazione, l’autonomia. Almeno dagli anni Settanta infatti, nei fatti se non nelle leggi, gli insegnanti italiani hanno cominciato a ritagliare, all’interno dei programmi ministeriali, percorsi differenziati. A partire dalle leggi di Berlinguer poi – siamo alla fine degli anni Novanta, vent’anni fa – la parola d’ordine della scuola italiana è diventata “autonomia”. Che poi è andata sempre più a braccetto con un’altra parola-chiave, “personalizzazione”. Autonomia delle scuole e personalizzazione della didattica, cioè tentativi di costruire percorsi di studio tagliati il più possibile sulla realtà concreta, sul mondo che cambia, su studenti che sono sempre più diversi, insegnanti appassionati del proprio mestiere che cercano di trovare i modi più adeguati per rispondere al bisogno di formazione di un mondo sempre più magmatico, imprendibile, differenziato.
Senonché, alla fine, c’è il letto di Procuste, il totem e tabù degli esami uguali per tutti. Quante volte ho dovuto dire ai miei studenti di quinta: “Ragazzi, negli anni passati abbiamo fatto un sacco di cose belle, quest’anno non possiamo più: ci sono gli esami, l’obiettivo di quest’anno è superare quelli”. Che poi anche questo è diventato un terno al lotto. Perché, “una volta”, bene o male l’ambito di quel che l’esame di Stato avrebbe potuto chiedere era delimitato in modo abbastanza chiaro; oggi ti può capitare di tutto, e un anno di lavoro serio e appassionato può essere ammazzato dalla fantasia di un funzionario ministeriale.
Chi difende, nel 2019, l’esame di Stato, dovrebbe avere l’onestà intellettuale di dire: no, la scuola dell’autonomia e della personalizzazione no. Io voglio ancora la scuola del 1923, la scuola dei programmi uguali per tutti, la scuola che ha come scopo eliminare le differenze e vuole dare a tutti la Cultura Unica di Stato – perché questo è il correlativo oggettivo inevitabile dell’esame di Stato: se c’è l’esame di Stato, vuol dire che c’è la Cultura Unica di Stato. Chi è a favore della Cultura Unica di Stato alzi la mano, e voti a favore dell’esame di Stato. Chi ama la libertà, il pluralismo, chi pensa con Shakespeare che “ci sono più cose in cielo e sulla terra di quante ne contenga la tua filosofia”, chi crede che non c’è schema in grado di ingabbiare una realtà che – sempre, ma oggi più rapidamente che mai – sfugge da tutte le parti, chi sogna una scuola davvero libera, in cui insegnanti e dirigenti competono per inventare i modi più adeguati per incontrare i ragazzi e per dar loro gli strumenti per affrontare un mondo che cambia a velocità inimmaginabile, non può non essere per l’abolizione.
Che – lo so – è quasi impossibile, perché l’esame di Stato – sciagura delle sciagure – sta nella Costituzione: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi” (art. 33). Quasi, però. Perché, accidenti, leggiamo la Costituzione fino in fondo: l’esame di Stato è prescritto in alternativa “per la conclusione” oppure “per l’ammissione”: che sogno, un esame di Stato per essere ammessi al ciclo superiore, per certificare che hai davvero le competenze per entrarci; e dopo, liberi tutti, e alle università o al mondo del lavoro valutare la bontà dei percorsi che le scuole hanno saputo inventare (come già accade, anche se non si può dire, anche se la retorica dell’esame combatte la realtà con tutte le sue forze…).